venerdì 27 marzo 2015

Perché la Fed non è ancora pronta ad alzare i tassi di interesse

fedNel suo articolo su Ilsole24ore dello scorso 26 marzo (link) Vito Lops presenta un’interessante analisi sull’esitazione delle banche centrali (solo di due in realtà: Fed e Bank of England) nell’intraprendere un processo di normalizzazione della propria politica monetaria. Detto con le parole di Lops “perché le banche centrali hanno paura ad alzare i tassi di interesse?”. La tesi del giornalista è semplice: il perdurare di tassi di interesse bassi (o addirittura negativi) alimenta possibili bolle (finanziarie e reali) pronte ad esplodere non appena le banche centrali stesse si appressassero a rialzare i tassi di interesse. E come esempio si riporta proprio la recente crisi finanziaria globale cominciata con la crisi dei subprime nel 2007: “i derivati subprime venduti dalle banche Usa in tutto il mondo sono collassati dopo che la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse”.

E’ vero. Condizioni accomodanti per un lungo arco temporale possono “incentivare” una assunzione di rischio eccessiva e non/mal gestita da parte degli operatori di mercato. Ma, si potrebbe ribadire, la politica monetaria ha le sue regole e i suoi obiettivi da rispettare che, in generale, sono (quasi sempre) due: inflazione e occupazione/crescita economica. E prima della crisi del 2007 il banchiere centrale non aveva null’altro in mente.

Delle tante lezioni che in questi anni abbiamo imparato ce n'è una fondamentale per i banchieri centrali di tutto il mondo: la politica monetaria non può prescindere da considerazioni relativa alla stabilità finanziaria del proprio sistema, e in un mondo sempre più globalizzato, anche degli altri sistemi finanziari. In altre parole, l’accumularsi di squilibri eccessivi nel prezzo delle attività e/o nel livello del credito, segnali della nascita di una potenziale “bolla”, non possono più essere ignorati da chi gestisce la politica monetaria, soprattutto di un paese come gli Stati Uniti. Dall’altra parte, però, non possono essere neanche uno degli obiettivi da perseguire.

C’è una cosa molto interessante, e che condivido, nell’articolo di Lops ed è relativa all’impatto che una stretta monetaria negli Stati Uniti può avere sui paesi emergenti: “I primi a soffrire di una stretta monetaria negli Usa saranno sicuramente i Paesi emergenti, che hanno un forte debito in dollari e che rischiano di non poter onorare il debito in una valuta che varrà di più dopo un rialzo dei tassi Usa rispetto alle divise locali emergenti”.

E’ vero. Ma dire che questo sia uno dei fattori principali che trattiene la Fed dall’alzare i propri tassi di riferimento mi sembra un po’ troppo forte, forse. Tra l’altro i paesi emergenti potrebbero beneficiare dell’ingente quantità di liquidità addizionale che sarà creata con il QE della BCE. Liquidità addizionale immessa nel sistema finanziario globale visto che la Fed per ora non ha in mente di ridurre la dimensione del proprio portafoglio di politica monetaria.

In realtà ritengo che ci siano soprattutto delle motivazioni interne che possano spiegare l’attesa di un rialzo dei tassi da parte della banca centrale più influente del mondo. Nella conferenza stampa dello scorso 18 marzo il presidente della Fed Yellen ha specificato che l’aver rimosso la parola “patient” nello statement con cui vengono annunciate le manovre di politica monetaria non vuole dire che la Fed sia diventata “impatient”. Sebbene abbiano modificato la propria forward guidance (possibili decisioni sui tassi dal secondo meeting successivo all'ultimo e non più dal terzo), la Fed non si è legata le mani, non si è pre-committed sulle sue prossime mosse: il timing e l’entità del rialzo dei tassi non sono stati pre-determinati. Come sottolineato dalla Yellen, la decisione sul rialzo dei tassi dipenderà dalla valutazione del FOMC sull’andamento del mercato del lavoro e dell’inflazione (realizzata e attesa) in relazione agli obiettivi di piena occupazione e di crescita dei prezzi al 2 per cento.

Il mercato del lavoro statunitense è in buone condizioni, come segnalano i più recenti dati (tasso di disoccupazione in progressivo calo e pari al 5,5% a febbraio), mentre l’inflazione e il PIL ancora stentano. Proprio oggi i dati finali sul PIL nell’ultimo trimestre mostrano una crescita annualizzata del 2,2%, inferiore alle attese di mercato (+2,2%), mentre l’inflazione (indice PCE) ha confermato un calo annualizzato dello 0,4%.

Il punto è proprio questo: forse l’economia statunitense non sta andando così bene da giustificare l’inizio di una stretta monetaria sui tassi. Per ora.

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