martedì 15 dicembre 2015

Giappone in recessione....anzi no!

Le stime iniziali sul terzo trimestre nipponico, che prevedevano una contrazione annualizzata del Prodotto Interno Lordo pari a 0,8 punti percentuali, si sono rivelate totalmente e sorprendentemente errate. Infatti nel terzo trimestre il Pil è cresciuto ad un tasso annualizzato dell'1% (0,3 punti percentuali  rispetto al secondo trimestre).
Il risultato, decisamente migliore rispetto alle attese, è stato spinto in modo particolare dall'aumento degli investimenti di capitale delle imprese, incrementato dello 0,6% (inizialmente era stato previsto un calo dello stesso dato dell'1,3%).
Quindi la politica economica portata avanti dal premier Shinzo Abe, sulla quale ha scommesso l'intero suo mandato con il referendum vinto lo scorso anno, ha cominciato a dare i suoi frutti.
Come risaputo l'Abenomics prevede una politica economica decisamente espansiva per mantenere il tasso di inflazione attorno al 2%, tassi di interesse negativi per disincentivare il risparmio ed aumento della spesa pubblica.
L'economia giapponese, che è la terza mondiale, torna dunque sul binario dell'espansione.
Espansione che da prime stime dovrebbe essere confermata anche nell'ultimo trimestre del 2015 scongiurando il rischio di ripetere il risultato negativo dello scorso anno (caratterizzato dalla recessione) influenzato dall'aumento dell'IVA.
Il governo quindi proseguirà con la politica economica sostenuta da Abe promovendo una manovra fiscale da  3000 miliardi di Yen per sostenere il settore agricolo e la fasce più deboli della popolazione.
Grazie all'inatteso aumento delle entrate fiscale il governo non avrà la necessità di ricorrere alla vendita di titoli di stato per finanziare la suddetta manovra.
Resta ora da vedere se le imprese ritoccheranno in positivo i salari dei lavoratori così da sostenere la crescita economica attraverso i consumi interni.
Infatti una delle maggiori critiche all'Abenomics è proprio legata alla possibile mancanza di allineamento dei salari che porta inevitabilmente ad una riduzione del potere d'acquisto della popolazione locale.

sabato 21 novembre 2015

Edilizia ecosostenibile: le case eco friendly fatte di pneumatici

La nuova frontiera per un futuro di edilizia eco-sostenibile potrebbe arrivare direttamente dalla Colombia.
Nella cittadina di Choachi, sita sugli altopiani della regione di Cundinamarca, circa ad un’ora di cammino ad est della capitale Bogotà, l’attivista ambientale Alexandra Posada, 35 anni, ha costruito per la prima volta abitazioni utilizzando pneumatici usati e abbandonati lungo le strade del paese. Queste singolari costruzioni appaiono come degli enormi igloo, ma in realtà non sono altro che un geniale mix di 9000 copertoni, terra e ferro. Infatti, Alexandra Posada ed il suo team fabbricano queste abitazioni impilando i pneumatici intorno a sbarre di ferro, al fine di creare delle strutture circolari che sono al tempo stesso solide e flessibili; i  copertoni vengono riempiti di terra riuscendo così ad isolare efficacemente le abitazioni sia contro il caldo sia contro il freddo. Anche il tetto viene realizzato con pneumatici opportunamente aperti e allungati per il senso dell’altezza della copertura. Infine, l’attivista utilizza il vetro riciclato dalle bottiglie per realizzare i lucernari nelle camere da letto, inserendoli in senso verticale nei soffitti di cemento per creare un effetto di vetro colorato pixellato.



I vantaggi di questo nuovo tipo di edilizia eco-sostenibile sono duplici: innanzitutto, utilizzando “mattoni” di gomma, la struttura è maggiormente in grado di assorbire le vibrazioni delle scosse terrestri. Pertanto, la casa-igloo è una valida soluzione per l’edilizia antisismica, soprattutto in un territorio come la Colombia messo a dura prova dai terremoti. In secondo luogo, l’impiego di un materiale di scarto quali i pneumatici riduce il notevole e grave problema dello smaltimento della gomma che richiede migliaia di anni per decomposizione; infatti, oltre ai costi che ogni anno il governo colombiano deve sostenere, ci potrebbe essere il rischio che si opti per la soluzione più “facile” e “comoda”, ossia bruciare i pneumatici, provocando così fumi velenosi che sono molto dannosi per la salute dei cittadini.
Grazie a questi benefici, l’invenzione di Alexandra potrebbe in futuro trovare appoggio da parte dell’amministrazione colombiana ed essere quindi proposta su scala più ampia, dando un importante contributo sia dal punto di vista ecologico e del riciclo, sia sotto il profilo della sicurezza all’interno dell’ambiente domestico.
Per chi volesse saperne di più riguardo a questa iniziativa, può vedere un’intervista ad Alexandra a questa pagina:

mercoledì 18 novembre 2015

UBS acquista Santander Private Banking Italia

UBS, uno dei player più rilevanti a livello mondiale nel mercato del Private Banking e del Wealth Management, rafforza la sua presenza in Italia e conferma la decisione di acquisire la divisione private italiana del colosso spagnolo Santander, prendendo quindi in gestione circa 2,7 miliardi di € di masse, insieme all’intero team di private banker e al personale di supporto.


L’operazione, il cui perfezionamento è previsto nel primo trimestre del 2016 - una volta che saranno ottenute tutte le autorizzazioni regolamentari - rappresenta un chiaro segno del desiderio di UBS di rafforzare la sua presenza nello stivale. 

L’acquisizione permetterà infatti agli svizzeri di aumentare la loro market share italiana portandola circa al 4% (dal 3,5% attuale) e di scalare due posizioni nel ranking delle private bank italiane (UBS passerà da sesta a quarta in termini di asset in gestione, secondo quanto dichiarato dai portavoce della società), rimanendo comunque ben distaccata dal leader Fideuram-Intesa Sanpaolo Private Banking che con i suoi 90 miliardi di masse detiene circa il 15% del mercato.

Ma quali sono le motivazioni principali dietro questa decisione? Per Fabio Innocenzi, amministratore delegato di UBS Italia, Santander Private Banking Italia vanta un posizionamento di eccellenza nel nostro paese come operatore di prim'ordine nei servizi di private banking. E questa acquisizione è quindi perfettamente in linea con l’attuale offerta di servizi di gestione di grandi patrimoni privati in Italia.


Basata a Milano, e con un network di altre 5 filiali posizionate a Varese, Brescia, Roma, Napoli e Salerno, SPB Italia fornisce consulenza finanziaria e soluzioni di investimento a clientela high net worth (clienti che hanno più di 1 milione € di asset in gestione) e a gruppi familiari. Oltre ai servizi di wealth management, l'offerta di SPB Italia comprende prodotti e servizi bancari, prestiti e mutui. 

La divisione Private di Banco Santander sembra però non sia riuscita a raggiungere in questi anni un massa critica sufficiente da giustificarne il suo mantenimento all’interno del Gruppo che ha preferito cederne la gestione a UBS, un player di sicuro più forte sia in termini di prodotti e servizi offerti, che in termini di posizionamento: la divisone wealth management ha infatti riportato risultati estremamente positivi nel primo semestre del 2015 con gli asset in gestione che sono cresciuti del 9%, di cui 4,8% per effetto performance e 4,2% per flusso netto (vs 1,5% di flusso netto medio delle banche italiane nello stesso periodo). 

mercoledì 4 novembre 2015

Qwant, il motore di ricerca anti-Google europeo

Google, si sa, è il padrone incontrastato del mercato UE dei motori di ricerca di cui detiene il 97%. Tuttavia pare che ci sia qualcuno che voglia fargli concorrenza e che quel qualcuno sia una società francese di nome Qwant, beneficiaria pochi giorni fa di niente poco di meno che di un finanziamento di 25 milioni dalla Banca europea degli investimenti (Bei) nell’ambito del programma comunitario per l’innovazione Horizon 2020.



Qwant – il cui nome fonde il concetto di “Quantity of Information” con quello di “Wanted Information” - è stata fondata nel 2011 da Jean Manuel Rozan e da Eric Leandri con l’obiettivo di introdurre qualcosa di diverso nel mondo dei motori di ricerca. Due sono i punti cardine di questa “diversità”:
  1. un algoritmo meno invadente di quello di Big G, che rispetti la privacy degli utenti e che garantisca la neutralità dei risultati
  2. un presentazione innovativa dei contenuti, con una home page che riporti a sinistra i risultati della ricerca sul web, a destra i link dei social network e al centro le notizie
Qwant è considerato un progetto franco-tedesco anche perché il gruppo editoriale Alex Springer, che da tempo vuole emanciparsi dalla dipendenza da Google, vi ha investito più di 5 milioni e ha acquisito una partecipazione del 20%.
Si prevede che la società sbarchi a breve (fine marzo 2016) anche in Italia, dove tenterà di sottoscrivere un ulteriore aumento di capitale. La proposta di investimento e di partnership industriale è infatti già al vaglio di grandi operatori del settore delle telecomunicazione nazionali e del credito, i settori per i quali l’attività di Qwant è più strategica.

Tuttavia, nonostante l’attenzione mediatica che si sta registrando in merito a questo progetto, la strada per il successo è ancora lunga. Come afferma infatti Alessandro Perego, direttore scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano “Se il posizionamento politico di questa iniziativa è chiaro non è altrettanto chiaro l'impatto che avrà sul mercato” e la modalità attraverso cui riuscirà a superare i tre ostacoli che ha davanti.
Qwant infatti dovrà essere capace di:
  1. diffondersi in un mercato iper concentrato dove Google ha spazzato via la concorrenza di player di buon livello come Bing (Microsoft) e Yahoo
  2. creare un algoritmo proprietario efficace che permetta di ottenere risultati di qualità e che tenga conto delle nuove modalità con cui gli utenti accedono alla rete (in primis da mobile)
  3. convincere gli utenti allo switch verso un nuovo ecosistema che ovviamente dovrà essere in grado di fornire non solo un motore di ricerca, ma anche una serie di servizi complementari come quelli offerti da Google oggi (e-mail, gestione delle campagne pubblicitarie,…)
La sfida non è semplice: ce la farà Qwant a imporsi come anti-Google europeo o ci troveremo dinanzi all’ennesimo flop?

mercoledì 28 ottobre 2015

Il Pil in Cina ha battuto le aspettative


L’’economia cinese si sta espandendo più velocemente rispetto alle previsioni degli economisti sul terzo trimestre, permettendo al premier Li Keqiang di mantenere a portata di mano il target del 2015.
Il Pil si è fermato sotto la soglia del 7%, precisamente a 6,9% nei tre mesi conclusi in settembre, secondo la comunicazione del National Bureau of Statistics, superando le aspettative degli economisti che prevedevano 6,8%. Il dato segna l’espansione più lenta dal 2009 e non scaccia i timori che possa trattarsi di una breve stabilizzazione prima di un più ampio decremento economico e dei mercati finanziari.
La forza nei servizi e nei consumi ha aiutato ad annegare i deboli dati sulla manifattura e sulle esportazioni, mettendo in luce una continua trasformazione della seconda più grande economia al mondo. Il ritmo di crescita del settore dei servizi ha accelerato a 8,4% nei primi 9 mesi dell’anno, mentre il settore secondario, che include appunto la manifattura, ha registrato un indebolimento fermando il tasso di espansione al 6%.
“E’ il momento di accettare che l’economia cinese non è guidata solamennte dai prodotti industriali e da investimenti su tipologie di asset fissi” ha dichiarato James Laurenceson, futuro direttore del Australia-China Relations Institute all’università di Sydney.
Il governo ha tagliato i tassi di interesse ben cinque volte da novembre 2014 e innalzato la spesa pubblica in infrastrutture al fine di mantenere la crescita in linea con il target del 7% stabilito per l’anno 2015.
I mercati non hanno risposto in modo spumeggiante, bensì lo Shanghai Composite Index ha chiuso praticamente invariato e il dollaro australiano si è rafforzato.
L’’output industriale nel mese di settembre è aumentato del 5,7% rispetto all’ultimo anno, comunque inferiore rispetto alle stime degli economisti che avevano in target il 6%. Le vendite retail sono aumentate del 10,9%, contro una stima del 10,8%.
La Cina ha effetti globali più che mai in questo periodo, con la Fed e la presidente Yellen che non hanno nascosto perplessità sulla situazione economica cinese che influisce sulle scelte future della banca centrale, nello specifico sul tema caldo di alzare o meno il tasso di interesse.
“L’impressione più ampia è che il rallentamento economico si sia fermato ma non ci sia ancora stata un’inversione di rotta”, ha dichiarato Shane Oliver, capo della strategia di investimento presso AMP Capital con base a Sydney.

lunedì 26 ottobre 2015

La crisi cinese frena i profitti del lusso



Il 2015 si sta rivelando un anno nero per il settore della moda e del lusso.
Contrariamente a quanto accaduto nel mondo occidentale durante la crisi economica che ha colpito la nostra economia, dove il settore sopra citato ha comunque mantenuto indici di crescita positivi nei fatturati dei vari brand, la crisi che ha colpito quest'anno il gigante asiatico sembra avere effetti differenti.
In teoria, come spiega uno studio della London School of Economics, al verificarsi di una crisi economica i settori come quelli del lusso dovrebbero essere impattati in positivo. Infatti in previsione di una svalutazione della moneta e di una possibile iperinflazione si cerca sempre “un riparo” nei in tutto ciò che abbia valore non volatile come i beni di lusso.
Tuttavia la svalutazione dello Yuan ed il rallentamento della crescita in Cina (ad oggi intorno al 6%) ha portato le grandi griffes a vedere una contrazione dei loro fatturati nel mercato cinese.
Una recente ricerca  di Bain&Company ha sentenziato che un ulteriore rallentamento dell'economia cinese potrebbe ridurre gli introiti del settore del 30%.
Il crollo della borsa asiatica ha colpito le società proprietarie di brand di lusso  facendo perdere i loro titoli per valori dal 5% al 15% circa (ad esempio LVMH ha perso il 5% mentre Burberry il 12%).
Inoltre, ad aggravare la situazione, ci ha pensato il governo cinese promuovendo una campagna anti corruzione ed introducendo nuove norme sul controllo della circolazione dei capitali.
In risposta alle nuove dinamiche del mercato i brand di lusso hanno cominciato a ridurre i canali retail nel paese guidato da Xi Jinping chiudendo una parte dei loro negozi e spostandoli in altri paesi, dove vi è un notevole afflusso di turisti cinesi.
Ad esempio LVMH, proprietario del marchio TAG Heuer, ha chiuso un negozio ad Hong Kong per poi aprirne di nuovi a Tokyo al fine di seguire i consumatori cinesi nei loro spostamenti.
Hermes, brand francese noto soprattutto per le sue borse, ha registrato un notevole incremento del suo fatturato in Giappone (circa del 30%).
Da non sottovalutare il potenziale dell'e-commerce, che al contrario del canale di vendita tradizionale, ha mantenuto valori positivi di crescita anche in Cina.

giovedì 22 ottobre 2015

Segnali positivi nell’Eurozona: il Quantitative Easing funziona


Il Quantitative Easing, ossia il programma di massiccio acquisto di titoli per un valore che supera i mille miliardi di euro da parte della Banca centrale europea, sta iniziando a dare i suoi frutti e a stimolare le economie dell’Eurozona. Almeno questo è quello che emerge dal sondaggio reso pubblico ieri dalla BCE che esamina l’andamento del credito alle imprese e alle famiglie nel terzo trimestre del 2015 tra più di 140 banche europee.
Secondo l’istituto centrale europeo, in questo periodo le banche in esame hanno usato “la liquidità addizionale derivante” dal QE “per erogare credito“.  In questo modo avrebbero allentato la stretta creditizia sul continente – in particolare al Sud – che ha caratterizzato questi anni di crisi economica.
Anche l’Associazione Bancaria Italiana conferma i dati della BCE evidenziando che nei primi otto mesi dell’anno in corso, i prestiti alle imprese hanno segnato un +15,9% rispetto allo stesso periodo del 2014.
Positivo anche il segnale sul lato delle famiglie: nei primi otto mesi del 2015, i nuovi mutui erogati sono stati pari a 28,920 miliardi di euro. Nello stesso periodo del 2014 erano stati di 15,543 miliardi di euro – per una crescita dell’86,1%. In questi numeri ci sono anche le surroghe – ovvero il trasferimento di un mutuo da una banca ad un’altra. La loro incidenza sul totale dei nuovi finanziamenti è stata pari a circa il 29%.                
I dati resi noti ieri influenzeranno le decisioni che il consiglio dei Governatori dovrà prendere giovedì: in linea di massima ci si aspetta che Draghi tenga aperta ancora la possibilità di effettuare modifiche in merito agli acquisti dei titoli previsti.
I benefici apportati all’Eurozona dal programma del Quantitative Easing hanno avuto e continuano ad avere per il Vecchio Continente un’importanza indubbia: la politica monetaria della BCE ha immesso liquidità nel sistema economico europeo, rendendo più facile l’accesso al credito per privati ed imprese. L’effetto di svalutazione sull’euro ha consentito di dare respiro alle esportazioni dei Paesi europei con le economie più deboli, fornendo così un input fondamentale per la ripresa post-crisi.
Dal lato tedesco non mancano comunque lamentele: la Bundesbank critica il fatto che il Quantitative Easing non giovi alle banche tedesche, che si trovano di fronte a una forte contrazione dei ricavi. Secondo il rapporto trimestrale appena pubblicato «La liquidità aggiuntiva, usata tra le altre cose per la concessione di prestiti è dovuta quasi esclusivamente a un aumento dei depositi bancari e, quasi per nulla, dalla vendita di attivi con valutazioni di mercato da parte delle banche stesse».

lunedì 19 ottobre 2015

Fed e tassi di interesse: cosa ci aspetta nei prossimi mesi?


I membri del Federal Reserve Board of Governors solitamente non condividono le differenze di opinioni all’esterno dell’istituzione. Nel giorno 11 ottobre il vice presidente Stanley Fischer ha dichiarato in un’intervista a Lima che si aspetta una risalita repentina dei tassi della Fed nel finale del 2015, confermando dunque quanto dichiarato da Janet Yellen in settembre. Solo a due giorni di distanza, Lael Brainard e Daniel Tarullo, entrambi membri del board, hanno indicato come la Fed dovrebbe pazientare ad intervenire sui tassi poiché non sono ancora presenti chiari segnali di inflazione. Tale “conflitto” sulle prospettive mostra precisamente il dilemma che sta affrontando la Yellen: alzare i tassi nel breve termine con il rischio di soffocare una timida ripresa, oppure attendere fino al prossimo anno rischiando di veicolare un’inflazione “comandata”.
Il congresso ha dato alla Fed due precisi compiti: mantenere il tasso di inflazione prevedibile e il tasso di disoccupazione basso. Nel passato, come la disoccupazione aveva una direzione a ribasso, l’inflazione prendeva il percorso inverso puntando ad innalzarsi. Dalle stime della Fed, con un tasso di disoccupazione del 5,2% l’inflazione sembrerebbe essere sul suo percorso naturale. Doves puntualizza però come tale relazione non è sempre verificata. Esiste infatti un terzo argomento: la Fed non conosce approfonditamente come e quanto abbia funzionato l’ultimo programma espansivo degli ultimi 7 anni. E se questo è il presupposto, immaginiamo quanto complesso possa essere avere delle previsioni attendibili per i prossimi anni.
La Fed non può dire alle banche quanto e come prestare risorse. Invece, tale processo è misura di uno strumento che è controllabile: il tasso di interesse. Dal 2008, la Fed ha mantenuto i tassi di interesse a breve termine prossimi a zero e abbattuto quelli a lungo termine per effetto del “quantitative easing”. Questo ha richiesto che la banca centrale comprasse ingenti quantità di debito governativo americano a lungo termine. Con un tasso di interesse nel lungo periodo minore, si incoraggia l’acquisto di abitazioni e i diversi business ad indebitarsi per puntare ad una futura espansione.
Il fatto, registrato in questi anni, è che seppur il tasso di interesse sia basso, i prestiti non sono aumentati come ci si aspettava. Un problema di manovra o un problema di misurabilità degli effetti? Alcuni economisti non nascondono il proprio scetticismo “non siamo convinti che il QE possa sistemare tutto”, riporta MIchala Marcussen, direttore globale del dipartimento economico di Societé Generale.
“Noi abbiamo stime veramente ottime di come il quantitaative easing abbia avuto effetti sui tassi di interesse”, ha dichiarato Amir Sufi, un professore della University of Chicago Booth School of Business. “Noi non siamo in grado di tradurre tutto questo negli effetti sull’’economia reale”. Nel suo ultimo intervento a Basilea, Sufi ha segnalato alle banche centrali come sia urgente cambiare i modelli di analisi per poter interpretare le manovre di politica monetaria.
Nel 2012, Ben Bernake, il predecessore della Yellen, dichiarò agli economisti che le manovre della Fed hanno abbassato i tassi di interesse a lungo termine e migliorato le condizioni finanziarie. “Ottenere delle stime precise degli effetti di queste operazioni risulta molto complesso”. Nella situazione attuale dove la Yellen sta valutando la prossima mossa, le parole di Bernake risuonano quanto più attuali e vere anche per lei.

domenica 18 ottobre 2015

Proseguono i negoziati per il TTIP con le proteste sullo sfondo


Continua a crescere in Europa la protesta contro il Transatlantic Trade and Investment Partnership per cui sono in corso round di trattative tra Unione Europea e Stati Uniti.
Per quanto in Italia si parli pochissimo di questo trattato e sul malcontento della popolazione europea sulle norme che lo disciplinano il 10 Ottobre si è svolta una imponente manifestazione di opposizione al TTIP ed al CETA (accordo commerciale stipulato tra Unione Europea e Canada) a Berlino.
L'evento è stato decisamente imponente, gli organizzatori parlano di 250mila presenze. Si pensi che l'ultima manifestazione con un numero maggiore di partecipanti si svolse il 15 Febbraio 2003, in opposizione alla partecipazione alla guerra in Iraq.
La larga partecipazione ha coinvolto non solo i sindacati (tedeschi), ma anche associazioni ambientaliste, gruppi che si occupano di sviluppo, associazioni di consumatori e produttori di alimentari.
Il timore dei contestatori del Transatlantic Trade and Investment Partnership e dell'Accordo Commerciale ed Economico Globale è quello che questi due trattati portino ad un incremento del potere delle aziende multinazionali a discapito della democrazia.
La Commissione Europea non sembra essere del tutto indifferente a questa movimentazione, infatti nel round partito il 19 Ottobre sono stati messi sul tavolo delle trattative degli eventuali vincoli più stringenti al fine di applicare norme di tutela dell'ambiente e di protezione sociale in linea con gli standard definiti a livello internazionale. Ad esempio le linee guida per la protezione dei lavoratori definite dall'Organizzazione Mondiale del Lavoro (il Congresso statunitense ne ha ratificate solamente due su su otto).
A questo si aggiunge anche la nuova proposta, già trattata in questo blog in un articolo precedente, riguardante l'organizzazione e la selezione dei componenti degli arbitrati che si occuperanno di eventuali dispute tra aziende private e stati.
Benchè questo accordo sia stato in effetti poco pubblicizzato (in Italia soprattutto) nonostante il vasto impatto che questo potrebbe avere nell'economia del vecchio continente, i cittadini europei hanno deciso di far sentire la loro voce.
Strategia che, considerando le azioni recenti di Bruxelles, hanno per ora sicuramente portato dei frutti.

mercoledì 14 ottobre 2015

La quotazione in Borsa di Poste Italiane


Tra le notizie che stanno ricevendo più attenzione mediatica in questi giorni spicca quella relativa alla quotazione in Borsa di Poste Italiane che rappresenta una delle più grandi pivatizzazioni italiane degli ultimi anni.
L’OPA (offerta pubblica di acquisto) di Poste Italiane, iniziata il 12 ottobre, porterà sul mercato circa il 38% circa del capitale attualmente detenuto dal Ministero dell’Economia e consentirà le negoziazioni del nuovo titolo Poste Italiane a partire da martedì 27 ottobre.
Una parte consistente del gruppo Poste, valutato tra i 7,8 e i 9,8 miliardi di euro, passerà così dal controllo dello Stato italiano agli investitori di Piazza Affari. Secondo quanto diffuso dal Ministero del Tesoro, l’operazione costituisce un cardine fondamentale del programma di privatizzazioni del Governo volto da una parte a rafforzare la società e rendere più efficienti i servizi resi ai cittadini, dall’altra a cercare di reperire risorse per ridurre il debito pubblico, anche se in realtà i 4 miliardi scarsi che verranno raccolti tramite questa IPO sono veramente un’inezia se confrontati agli oltre 2000 miliardi di debito pubblico italiano.
Ma vediamo insieme i dettagli dell’offerta.
Verranno collocate un massimo di 453 milioni di azioni ordinarie suddivise tra investitori istituzionali in Italia e all’estero (circa il 70%), e la clientela pubblica e i dipendenti del gruppo (circa il 30% del totale).
La valorizzazione del capitale sociale cadrà in un range tra i 7,84 e i 9,8 miliardi di euro con un prezzo che potrà variare tra un minimo di 6 euro ad azione e un massimo di 7,5 euro.
Agli assegnatari delle azioni che manterranno l’impiego per un anno spetterà una bonus share, ossia l’assegnazione di un’azione gratuita ogni 20 azioni assegnate nell’ambito dell’offerta di questi giorni. Anche la politica dei dividendi sarà particolarmente favorevole, con la distribuzione dell’80% degli utili netti consolidati al periodo di pertinenza sia per il 2015 che per il 2016.
Poste Italiane, campione nazionale con più di 150 anni di storia alle spalle, con una delle più forti reti di distribuzione a livello nazionale e con un business molto diversificato che ormai si è spinto ben oltre rispetto ai tradizionali servizi postali, sembra a prima vista un buon affare, ma restano comunque alcuni aspetti critici che potrebbero minarne il successo a Piazza Affari. In primis i rischi connessi alla revisione dell’impianto regolamentare del Servizio di Posta Universale che potrebbe avere ripercussioni negative sui risultati operativi e commerciali di Poste Italiane.

domenica 11 ottobre 2015

Volkswagen e la lunga strada da percorrere sul Caso Diesel


Il gruppo Volkswagen AG dovrà sostenere ingenti sforzi economici per gestire il recente scandalo sulle emissioni dei motori diesel, segnalando che il percorso intrapreso non vedrà la fine almeno entro il 2016.
VW ha presentato una proposta alle autorità tedesche riguardante la gestione legale dello scandalo in questo primo step, sottolineando come il coinvolgimento di tecnologie e le differenze dei regolamenti nei diversi paesi potranno complicare notevolmente il processo di risoluzione dello scandalo, e l’adeguamento delle emissioni dei veicoli coinvolti. Questa fase di forte incertezza lascia nell’oscurità circa 11 milioni di proprietari VW nel mondo, circa le riparazioni necessarie dei veicoli e come queste impatteranno sulle performance e sul valore futuro delle automobili.
A seguito dell’istallazione del software incriminato che gestiva i livelli di emissione dei motori utilizzato in America dal 2009, VW affronta dei costi e una riduzione delle vendite per una ammontare stimato totale di oltre €35 miliardi, secondo le stime di Warburg Research. Dopo aver quantificato questi rischi, VW ha interrotto e cancellato i progetti non essenziali, poiché gli accantonamenti fatti fino ad ora, circa €6.5 miliardi, non saranno sufficienti per gestire tale scandalo.
VW group ha segnalato ripetutamente che daranno maggiore importanza a risolvere in modo adeguato e definitivo il problema rispetto alla velocità che lo scandalo rientri. Inoltre, i vertici di VW hanno specificato come la questione emissioni coinvolga quattro case automobilistiche e molteplici modelli in tutto il mondo, incluse circa 8 milioni di vetture all’interno dell’Unione Europea e 482.000 negli Stati Uniti.
“Dovremo affrontare non tre soluzioni, ma migliaia” ha dichiarato il CEO Matthias Mueller in un’intervista, facendo riferimento alla complessità di gestire le differenze sia del mix tecnologico delle vetture sia delle rispettive leggi e regolamenti nei paesi.
Volkswagen ha comunicato alle autorità tedesche il proprio piano di gestione, indicando come i richiami delle automobili inizieranno a gennaio 2016 e proseguiranno fino alla fine dell’anno. Parte delle vetture probabilmente avrà bisogno solo una nuova programmazione del software che potrà essere eseguito dai service dei concessionari, mentre alcuni veicoli necessiteranno di nuovi sistemi di iniezione o una più ampi convertitori catalitici e, infine, la sostituzione completa della vettura verrà valutata solo in alcuni casi specifici.
Intanto, sul mercato di capitali il titolo sta oscillando intorno ai 115€, valore che recupera parte del terreno perso (infatti le azioni sono arrivate ad un prezzo di circa 100€) ma pur sempre ampiamente sotto i livelli pre-scandalo.

sabato 10 ottobre 2015

Twitter ci riprova con "Moments"


Se potessero, quelli di Twitter vi direbbero che il 2015 è stato un “annus horribilis” e se non dovessero ammetterlo, è solo perché stanno provando in extremis a raddrizzarlo.

L’immagine che emerge da una breve cronistoria dell’ultimo anno della casa californiana è tutto meno che rassicurante: dopo aver preteso la testa dell’ex CEO Dick Costolo, dimessosi sotto le pressioni degli azionisti il primo luglio di quest’anno, il board ha richiamato “ad interim” il founder Jack Dorsey, con l’intenzione di guadagnare tempo nella ricerca di un degno successore per guidare il social network dei cinguettii fuori dallo stallo dei 300 e poco più milioni di utenti attivi su base mensile. Il tutto mentre il titolo affondava in borsa, perdendo fino al 50% se si considerano le ultime 52 settimane.

Se questo non bastasse a definire lo smarrimento di Twitter, il quadro si completerebbe guardando al gap sempre più ampio nei confronti del primo competitor, Facebook, e al sorpasso sugli utenti attivi realizzato da Facebook stesso a mezzo della sua controllata Instagram, sempre ai danni del canarino azzurro, ridefinendo le gerarchie dei social network e raddoppiando la propria posizione ai primi posti delle principali telemetrie digitali.

Oggi Twitter gioca una delle sue ultime carte e sembra farlo rilanciando con un “all-in” in pieno stile Texas Hold-Em. Non solo infatti lancia “Moments”, una trasformazione radicale che dovrebbe ridefenire (o definire?) la posizione del social network nello spazio competitivo digitale ma lo fa tentando di costruirgli attorno tutta la solidità e la credibilità necessaria per essere davvero una mossa di rilievo: nominando Jack Dorsey CEO a tutti gli effetti, definendolo “il migliore è unico CEO possibile” per Twitter.

Ma che cos’è “Moments”?

Non dovevamo certo attendere Twitter per capire che una delle prossime terre di conquista per i giganti del web è nel mondo dell’informazione online, ovvero rendere i social l’unico punto di consumo di informazioni sia “private” (dalla rete di amicizie) che generaliste (dalla rete di contenuti di giornali, blog e media in genere).

La prima mossa l’ha fatta anche questa volta Facebook con i suoi “Instant Articles” e “Signal” (questo disponibile solo in US) e i “Moments” di Twitter dovrebbero ricalcarne l’idea generale, ovvero offrire all’interno del feed dell’utente una selezione di notizie legate a svariati argomenti, dall’informazione fino allo sport e all’intrattenimento. Una sorta di rassegna stampa veloce sponsorizzata da alcuni media partner di rilievo come, per citarne alcuni, il Washington Post, il NY Times, Mashable e Vogue. Oggi disponibile solo negli Stati Uniti dovrebbe essere rilasciato a breve anche nel resto del mondo.

Sarà questa la direzione giusta per il canarino smarrito?

venerdì 9 ottobre 2015

In attesa del TTIP ecco il TPP


Mentre il TTIP, nel mezzo delle negoziazioni tra USA e Unione Europea, procede a velocità decisamente ridotta ecco che 12 paesi che si affacciano sull'Oceano Pacifico trovano l'accordo per un trattato di libero scambio tra i più grandi al mondo.

Al termine di nove giorni di trattative ecco che il cinque Ottobre 2015 Stati Uniti, Canada, Perù, Australia, Cile, Brunei, Giappone, Malesia, Messico, Singapore,Nuova Zelanda e Vietnam hanno creato il Partenariato Trans-Pacifico, anche se  non ancora firmato e ratificato. Questo, per gli Stati Uniti, rappresenta il più importante accordo commerciale dai tempi del NAFTA.

In sostanza il TPP è un accordo di libero scambio che prevede l'eliminazione e la riduzione di tasse legate alla commercializzazione di prodotti facenti parte delle più varie categorie. Infatti questo agreement coinvolge, ad esempio, il settore automobilistico, cinematografico, alimentare e anche farmaceutico. In particolare questo ultimo è stato oggetto di intense trattative, soprattutto riguardo le tempistiche legate al loro brevetto. Inizialmente i negoziati, partiti nel 2005 avevano come obiettivo di chiusura nel 2012, tempistica che proprio grazie ai disaccordi sulla gestione della proprietà intellettuale non sono stati rispettati.

I paesi coinvolti, come nella maggior parte dei casi di accordi di questo tipo, sostengono che grazie all'intesa raggiunta aumenterà sia il lavoro che la ricchezza di tutta la loro area, che già rappresenta circa il 40% della produzione economica mondiale.

L'accordo raggiunto tra questi 12 paesi (che dopo aver firmato devono fare ratificare il trattato dai rispettivi parlamenti) ha una importante valenza non solo economica, ma anche politica.

Infatti uno degli effetti immediati è quello di minare l'influenza della Cina nella zona del Pacifico, si pensi che già Corea del Sud, Filippine e Taiwan hanno già manifestato interesse in tempi non sospetti (si parla del 2013).

Allo stesso modo questo accordo è un chiaro messaggio anche per gli altri paesi BRICS, che negli ultimi tempi stanno vivendo un periodo di stallo sia nelle riforme che nella crescita economica.

mercoledì 7 ottobre 2015

Data privacy: Ue blocca l’accordo con gli Usa sullo scambio di dati


Si ritorna a parlare di privacy su internet e di sicurezza sul trattamento dei dati con la Corte UE che proprio in questi giorni si è pronunciata su Safe Harbour, l'intesa tra USA e Europa che da 15 anni regolamenta il trasferimento dei dati tra i due continenti, definendola illegale.
La direttiva europea sulla protezione dei dati proibisce infatti che si spostino dati personali di europei fuori dall’Europa qualora vengano a mancare adeguate protezioni della privacy. Tuttavia dal 1998 gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno siglato un accordo (il cosiddetto Safe Harbour) che consente alle aziende americane che lo sottoscrivono – ben più 4mila - di trasferire dati dall’Europa all’America fin tanto che rispettino una serie di principi. Per anni dunque si è dato per scontato che questa autocertificazione delle aziende americane bastasse a garantire il diritto alla privacy dei cittadini europei.
Ma oggi cambia la musica. In virtú della sentenza emessa dalla Corte UE, i cittadini europei potranno chiedere di vietare a Facebook, Google e ad altri colossi del web di conservare negli Stati Uniti i dati dei propri iscritti. Questa presa di posizione rovescia una decisione del 2000 della Commissione europea che riteneva adeguato il livello di protezione dei dati offerto dagli americani e consentiva il trasferimento oltreoceano di informazioni relative ai cittadini europei.

Iniziano a tremare quindi i grossi player del web che finora hanno sfruttato la disciplina per trasferire dati a carattere personale di origine europea negli Stati Uniti al posto di conformarsi alle più vigorose normative comunitarie in materia di privacy.

Il processo che ha portato a questa decisione è iniziato nel 2011 quando Max Schrems, uno studente austriaco di giurisprudenza, dopo lo scandalo del programma di sorveglianza americano svelato da Edward Snowden, ha avviato una battaglia contro Facebook Irlanda sostenendo che come utente Facebook i suoi diritti erano stati violati dai programmi americani. Vistosi ignorato dall’authority irlandese per la protezione dei dati, Schrems ha portato il caso davanti a una corte irlandese fin poi ad approdare alla Corte europea di giustizia che ha infine accolto la sua richiesta.

Ma cosa succederà adesso in concreto?
Le autorità nazionali avranno più potere per garantire un’adeguata protezione della privacy. Da domani chiunque potrà presentare delle segnalazioni come quelle di Schrems e verificare con le autorità la sicurezza del trasferimento dei propri dati all’estero. Se la gestione verrà giudicata non adeguata il trasferimento dati potrà essere bloccato. Questo potrebbe portare a una crescente localizzazione dei dati di cittadini europei all’interno dell’Unione europea e un cambiamento dei modelli aziendali di gestione dei dati.
Come evidenzia il quotidiano La Stampa, tuttavia potrebbero verificarsi anche alcuni escamotage: ad esempio le aziende potrebbero modificare i contratti con gli utenti europei, chiedendo il loro consenso per trattare i dati all’estero. 
Staremo a vedere come reagiranno i grandi colossi del web e quali strategie utilizzeranno per continuare ad utilizzare i nostri dati, nonostante i vincoli legislativi.             

domenica 4 ottobre 2015

TTIP si cerca un accordo sulla regolamentazione delle dispute stati imprese


In accordo con gli impegni assunti nell'ultimo round delle negoziazioni del tanto discusso TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) con gli Stati Uniti, la Commissione Europea ha preparato una proposta per la regolamentazione di un sistema di giustizia dedicato alle dispute tra Stati ed investitori.
Questo tema è attualmente uno dei più spinosi e più soggetti a discussioni tra la federazione guidata da Obama e l'Unione Europea.
La commissaria al commercio Cecilia Malstroem ha recentemente assicurato la struttura di questa nuova Corte per le dispute commerciali tra investitori e Stati non limiterà in alcun modo il diritto di ogni stato di regolare le opere pubbliche.
La Malstroem sostiene inoltre che gli accordi commerciali tra l'Unione e gli Stati Uniti non potranno impedire alla prima di mantenere le regole sugli aiuti di stato, così che gli Stati non diventino soggetti a forme di ricatto da parte delle multinazionali.
Per meglio comprendere la delicatezza della questione ed i possibili impatti nella situazione non vi sia una adeguata protezione per gli stati sovrani si può prendere come esempio il caso della Vattenfall.
Nel 2011, a seguito della tragedia nucleare di Fukushima in Giappone, la Germania ha deciso di abbandonare il nucleare facendo chiudere le due centrali di Brunsbüttel e Krümmel gestite dall'azienda svedese. A seguito del provvedimento tedesco la Vattenfall si è rivolta all'arbitrato internazionale della Banca Mondiale avanzando la richiesta di risarcimento dal valore di 4,7 miliardi di euro.
La nuova proposta, qualora approvata da Parlamento Europeo, dai governi dei paesi UE ed in seguito dagli USA, andrebbe a sostituire la prima proposta che prevede la creazione di commissioni Ad Hoc con arbitri privati (Investor-state dispute settlement).
La commissione prevede quindi la creazione di una Corte di Giustizia composta da un tribunale di prima istanza con quindici giudici nominati pubblicamente ed un tribunale di appello composto da sei giudici.
I quindici membri giudicanti verrebbero nominati congiuntamente da Unione Europea e Stati Uniti e dovrebbero essere così suddivisi: cinque giudici europei, cinque americani e cinque da paesi terzi.
Allo stesso modo sarebbero suddivisi anche i sei giudici di appello: due europei, due statunitensi e due da paesi terzi.
Nonostante di primo impatto la scelta di suddividere in questo modo la nazionalità (e quindi un ipotetico favoritismo territoriale) possa essere considerato equo, bisogna vedere che ruolo potrebbero avere le influenze politiche dei paesi coinvolti in eventuali dispute.

venerdì 11 settembre 2015

Disoccupazione in Europa al minimo da tre anni


Il tasso di disoccupazione è diminuito fino ai livelli minimi degli ultimi tre anni, arrivando al 10,9% nel mese di luglio, fornendo dati incoraggianti per gli stati, come l’Italia, colpiti duramente dalla crisi economica dell’eurozona.
La contrazione del tasso di disoccupazione, misurata in 213.000 posti di lavoro, porta l’indice ai valori più bassi dal mese di febbraio 2012. Attualmente nell’eurozona circa 17.5 milioni di persone rimangono senza il posto di lavoro.
In Spagna il tasso di disoccupati è sceso dal 24,3% al 22%. Grecia, Portogallo e Irlanda, tutti stati che hanno ricevuto aiuti economici, hanno diminuito il tasso di circa due punti percentuali, arrivando rispettivamente a 25%, 12,1% e 9,5%.
In Italia, grande protagonista in questa statistica, il tasso è crollato al 12% nel mese di luglio, valore minimo da più di due anni, dato che ha acceso i riflettori su Matteo Renzi che ha comunicato l’andamento attraverso un video messaggio.
“Questi non sono solo numeri, queste sono donne del meridione che hanno trovato un’occupazione, questi sono 50enni che hanno nuovamente una possibilità”, ha dichiarato il premier italiano. “Questo è uno paese pronto ad una nuova partenza”.
Il declino del tasso di disoccupazione in Italia è stato inaspettato perché arrivato dopo due mesi consecutivi di incremento. Il tasso di disoccupazione giovanile è diminuito nel mese di luglio a 40,5%, che è anch’esso il valore più basso degli ultimi due anni, partendo dal 43% di giugno. Tali dati riescono a rinforzare la confidenza nella solidità del recupero economico del paese, che è iniziato timidamente all’inizio del 2015 dopo aver visto 3 anni di stagnazione e recessione. Sempre in Italia, sono stati riviste a rialzo le previsioni del PIL per la seconda parte dell’anno.
L’apparente stato di salute del mercato del lavoro italiano è stato uno dei principali aspetti di preoccupazione del governo italiano ed europeo. I disoccupati hanno raggiunto il livello massimo in chiusura del 2014 al 13% e seppur i buoni risultati di luglio sulle soglie del 12% i livelli restano di molto sopra i valori pre crisi, che vedeva il tasso a circa il 6%.
I recenti dati dei mesi di giugno e luglio, intrecciati con le previsioni positive del PIL, potranno incoraggiare le società ad aumentare le assunzioni. Il numero di lavoratori italiani è cresciuto di 235.000 tra luglio 2014 e luglio 2015, e di 44.000 tra giugno e luglio di quest’anno.
Ciononostante il fondo monetario internazionale ha comunicato che in assenza di una “accelerazione significativa” della crescita economica in Italia, potrebbe essere necessario fino a 20 anni perché il tasso di disoccupazione possa rientrare sotto i livelli pre crisi.

giovedì 10 settembre 2015

Il rublo e il petrolio a braccetto


La moneta russa sta tracciando il prezzo del petrolio con una correlazione vicina ai massimi di sempre, dopo che il rublo ha inanellato il quarto mese di perdite spingendolo verso record negativi.
Più in dettaglio, il rublo si è indebolito del 8,1% in agosto così come il prezzo del Brent, utilizzato in larga parte per prezzare le esportazioni della Russia, è diminuito del 6,4%. Questi trend hanno spinto l’indice di correlazione a 30 giorni tra rublo e petrolio a 0,82, il livello più alto registrato da Moscow Exchange dal 2003. Leggendo il valore come 1 significherebbe che la moneta e il greggio si muoverebbero in perfetta correlazione.
Da quando il governo ha deciso di abbandonare il regime controllato della moneta nel novembre scorso, il più grande esportatore di energia al mondo ha permesso che il rublo potesse essere commerciato più o meno liberamente. Il più ampio vantaggio per la Russia di un indebolimento della propria moneta è quello di favorire le esportazioni e di contenere il declino delle vendite di petrolio e gas, che incidono per circa il 50% delle entrate pubbliche. Questo andamento dunque alleggerisce il crollo del petrolio che altrimenti avrebbe provocato ferite davvero profonde nei bilanci pubblici, provocando recessione e deficit nel budget.
La moneta rimarrà probabilmente ancorata all’andamento del petrolio, che è “il maggior driver” secondo Dmitry Polevoy, economista per la Russia presso ING Groep NV a Mosca, il quale proietta il rublo in ulteriore sofferenza sulla base dei rischi derivanti dai movimenti della Federal Reserve sui tassi d’interesse e dagli andamenti economici della Cina.
Il petrolio Brent ha registrato una delle peggiori mensilità di sempre durante agosto, e i produttori sembrano non voler arrestare i livelli di greggio immessi sui mercati facendo persistere dunque l’eccesso di offerta rispetto alla domanda mondiale.
Lo scenario del greggio pesa inesorabilmente su tutti gli asset russi, come ad esempio sui bond in moneta locale che hanno perso 9,6% nell’ultimo mese. Il governo russo sembra iniziare ad essere scomodo con l’andamento della moneta interna, e la banca centrale ha bloccato gli acquisti di moneta straniera dopo averli introdotti a metà maggio quando il rublo si rafforzò toccando il picco del 2015.
Il deprezzamento mensile del rublo è stato sorpassato solamente dalla moneta della Malesia ringgit tra 24 mercati in via di sviluppo dopo che il crollo della moneta cinese yuan ha mandato scossoni al mercato globale e che gli investitori attendono il primo incremento dei tassi di interesse in America dal 2006.

mercoledì 9 settembre 2015

Il terremoto dei mercati in Cina fa tremare l’Europa


Il peggior mese degli ultimi quattro anni per i mercati azionari europei ha infine creato una profonda ammaccatura nel livello di confidenza degli investitori.
I caldi spiriti dei Trader, che avevano visto le proprie aspettative lievitare sulla base delle proiezioni dei profitti trimestrali e delle promesse di stimoli della banca centrale, si sono raffreddati negli ultimi giorni, rastrellando liquidità dai fondi della zona euro per la prima volta in oltre 15 settimane.
“Quando monetizzi i profitti lo fai dove i profitti sono stati fatti”, ha dichiarato Romain Pasche, direttore degli investimenti di EFG Bank a Ginevra. “E quest’anno gli investitori hanno fatto i profitti in Europa”.
L’indice Euro Stoxx 50 ha scalato fino ad arrivare a 22% durante l’ultimo anno prima di andare in stallo. Dopodiché è arrivato agosto, che ha preso una strada verticale verso il ribasso bruciando qualcosa come $8.4 Tn di valore azionario. Anche l’ottimismo per gli stimoli della banca centrale europea non è stato sufficiente per mantenere il livello dei titoli raggiunto in primavera. Il gruppo svizzero Credit Suisse ha tagliato il proprio target di fine anno per l’indice Euro Stoxx 50 del 10%, e Goldman Sachs ha ridotto drasticamente la propria quota allocata nell’azionario europeo.
Agosto è stato il mese dove la volatilità ha raggiunto i livelli che non si vedevano dal 2008. Il prezzo delle opzioni di vendita dell’indice Euro Stoxx 50 è balzato di oltre il 50% dal 20 agosto, rispetto a quello delle opzioni di acquisto. Circa 8 su 10 dei contratti più posseduti dagli investitori sono “bearish”.
Gli investitori hanno prelevato $3.6 Bn dai mercati azionari europei solo nella settimana terminata il 26 agosto, secondo quanto riportato da una nota emessa dal gruppo Bank of America. Questo rappresenta il più grande flusso di moneta in uscita da ottobre 2014.
La contrazione di agosto ha quasi completamente vaporizzato i margini positivi realizzati nell’anno, con l’indice tedesco Dax tra i più scottati, poiché sono aumentate le preoccupazioni circa le esportazioni che saranno colpite dalla svalutazione della moneta cinese. L’euro, il cui crollo di inizio 2015 ha contribuito alla crescita dell’azionariato, ha ripreso terreno dato anche grazie al “Carry Trade” realizzato sulla moneta dagli investitori.
Rispetto al mercato americano, l’equity europeo risulta più attraente. L’indice VStoxx, che traccia le aspettative delle oscillazioni dell’Euro Stoxx 50, è vicino ai livelli più bassi visti nel 2012. Questo è dovuto parzialmente al fatto che la Federal Reserve si sta preparando ad innalzare i tassi d’interesse.

martedì 8 settembre 2015

Il governo Obama aumenta il salario minimo: il rovescio della medaglia


Le proteste dei dipendenti dei fast food che hanno caratterizzato la primavera statunitense hanno spinto il governo americano ad approvare un pacchetto di riforme che prevede l'aumento del salario minimo per i lavoratori del settore da 7,25 a 15 dollari l'ora in tre anni, entro il 2018.
Questo movimento, nato a New York nel 2012 è infine riuscito ad ottenere ciò che chiedeva grazie ad un numero sempre crescente di adesioni riuscendo quindi a porre la questione fino agli uffici di Washington.

Gli analisti prevedono che il raddoppio del salario minimo permetterà a 140.000 persone di uscire da situazioni di indigenza contribuendo a stimolare i consumi interni.

Senza mettere in dubbio la bontà della mossa di Obama vanno considerati anche gli effetti indesiderati conseguenti al cambiamento del salario minimo.
Bisogna considerare che nel mondo della ristorazione il costo del personale compone circa il 30% dei costi totali supportati ed un incremento del primo produce inequivocabilmente delle scosse che impattano anche la strategia stessa dei datori di lavoro.

Infatti molte compagnie di ristorazione sono al lavoro per ridurre i costi legati agli stipendi del personale cercando di ridurre il numero di lavoratori in un modo molto semplice: introducendo l'utilizzo dei robot al posto dei dipendenti.

In questo modo le aziende di ristorazione, che impiegano 2.4 milioni di camerieri, quasi tre milioni di cuochi ed oltre tre milioni di cassieri potranno ridurre in modo considerevole i costi sostenuti.

Questa iniziativa avrebbe un effetto sociale opposto all'obiettivo prefissato dall'azione di aumento del salario minimo in quantro contribuirebbe all'aumento della disoccupazione (peraltro nella fascia più debole della popolazione americana).

Ma non tutti sono così convinti di questa strategia. Infatti, come scrive il Washington Post l'introduzione massiva di robot nei punti vendita implicherebbe una notevole quantità di investimenti che in caso di impatto negativo negli affari metterebbero in crisi anche colossi della ristorazione fast food.

Inoltre, specialmente negli Stati Uniti, la presenza dei dipendenti nel ristorante è considerata un vantaggio concorrenziale, visto che molte persone scelgono i fast food non solo per questioni economiche, ma anche per la possibilità di interazione umana.

Il settore della ristorazione in America subirà quindi una importante ristrutturazione grazie all'introduzione delle riforme volte ad aumentare il salario minimo e solo il tempo saèrà dirci se Obama ed il suo governo si sono mossi nella corretta direzione anche in funzione della riposta dei datori di lavoro.

lunedì 20 luglio 2015

La democrazia può essere considerata driver di crescita?


Oggi sono stato colpito da un articolo pubblicato dal settimanale Internazionale che riprende il testo pubblicato dal The Economist intitolato “Democrazia e crescita vanno d’accordo”.
Il dibattito sulla correlazione tra democrazia e crescita ha sempre appassionato gli economisti di tutto il mondo vedendoli schierati in opposte linee di pensiero.
Uno studio svolto nel 2008 di Acemoglu ha dimostrato come i paesi che sono caratterizzati da un livello di libertà più elevato (secondo le pubblicazioni di Freedom House) mostrano valori di crescita del pil pro capite maggiore di circa quattro volte rispetto ai paesi “parzialmente liberi” e “non liberi”. Allo stesso modo, considerando il grado di libertà politica, lo studioso ha rilevato che i paesi con un più alto indice hanno avuto un aumento di pil pro capite del 20% circa in 25 anni. Questo, sempre secondo Acemoglu, perché questi paesi hanno sperimentato minori tensioni sociali.
Inoltre un sistema poco democratico danneggia l’economia del paese a causa della mancata spinta concorrenziale in quanto spesso le aziende “amiche” del governo godono di vantaggi che eliminano possibili competitor limitando l’economia di mercato.
Risultati che differiscono da quanto sperimentato in uno studio del 1994 di Torsten Persson (professore all’università di Stoccolma) e Guido Tabellini (che all’epoca insegnava a Brescia) che li porto a sancire che la democrazia non era un elemento in grado di aumentare i processi di crescita. Infatti i politici, assetati di voti, destinano risorse a soddisfare il proprio elettorato implicando spesso una allocazione di queste in modo tutt’altro che efficiente.
I detrattori del concetto democrazia=crescita utilizzano come argomentazione il caso cinese. La Cina negli ultimi dieci anni ha mostrato un tasso di crescita medio del 10% con il suo governo monopartitico.
Allo stesso modo in Corea del Sud, che ha conosciuto un sostenuto processo di democraticizzazione ha avuto, nello stesso periodo, un tasso di crescita medio del 6%.
Personalmente credo che in realtà non sia la democrazia o la libertà a sancire il successo economico di un paese per quanto il potere al popolo sia auspicabile in ogni paese del mondo.
A mio parere, alla luce dei diversi risultati, è la stabilità politica a permettere ad un paese di sfruttare al meglio le proprie risorse e definire un processo di crescita sostenibile nel medio lungo periodo.
Cosa che hanno in comune sia Cina che Corea del Sud.
E’ quindi la qualità del progetto economico a definire un processo duraturo di crescita, indistintamente dal tipo di struttura politica, sia questa dittatoriale piuttosto che democratica.
Solo un governo stabile può implementare progetti ed opere in grado di portare la propria nazione ad ottenere risultati economici positivi.