lunedì 20 luglio 2015

La democrazia può essere considerata driver di crescita?


Oggi sono stato colpito da un articolo pubblicato dal settimanale Internazionale che riprende il testo pubblicato dal The Economist intitolato “Democrazia e crescita vanno d’accordo”.
Il dibattito sulla correlazione tra democrazia e crescita ha sempre appassionato gli economisti di tutto il mondo vedendoli schierati in opposte linee di pensiero.
Uno studio svolto nel 2008 di Acemoglu ha dimostrato come i paesi che sono caratterizzati da un livello di libertà più elevato (secondo le pubblicazioni di Freedom House) mostrano valori di crescita del pil pro capite maggiore di circa quattro volte rispetto ai paesi “parzialmente liberi” e “non liberi”. Allo stesso modo, considerando il grado di libertà politica, lo studioso ha rilevato che i paesi con un più alto indice hanno avuto un aumento di pil pro capite del 20% circa in 25 anni. Questo, sempre secondo Acemoglu, perché questi paesi hanno sperimentato minori tensioni sociali.
Inoltre un sistema poco democratico danneggia l’economia del paese a causa della mancata spinta concorrenziale in quanto spesso le aziende “amiche” del governo godono di vantaggi che eliminano possibili competitor limitando l’economia di mercato.
Risultati che differiscono da quanto sperimentato in uno studio del 1994 di Torsten Persson (professore all’università di Stoccolma) e Guido Tabellini (che all’epoca insegnava a Brescia) che li porto a sancire che la democrazia non era un elemento in grado di aumentare i processi di crescita. Infatti i politici, assetati di voti, destinano risorse a soddisfare il proprio elettorato implicando spesso una allocazione di queste in modo tutt’altro che efficiente.
I detrattori del concetto democrazia=crescita utilizzano come argomentazione il caso cinese. La Cina negli ultimi dieci anni ha mostrato un tasso di crescita medio del 10% con il suo governo monopartitico.
Allo stesso modo in Corea del Sud, che ha conosciuto un sostenuto processo di democraticizzazione ha avuto, nello stesso periodo, un tasso di crescita medio del 6%.
Personalmente credo che in realtà non sia la democrazia o la libertà a sancire il successo economico di un paese per quanto il potere al popolo sia auspicabile in ogni paese del mondo.
A mio parere, alla luce dei diversi risultati, è la stabilità politica a permettere ad un paese di sfruttare al meglio le proprie risorse e definire un processo di crescita sostenibile nel medio lungo periodo.
Cosa che hanno in comune sia Cina che Corea del Sud.
E’ quindi la qualità del progetto economico a definire un processo duraturo di crescita, indistintamente dal tipo di struttura politica, sia questa dittatoriale piuttosto che democratica.
Solo un governo stabile può implementare progetti ed opere in grado di portare la propria nazione ad ottenere risultati economici positivi.

domenica 19 luglio 2015

Cina: l’incubo non è finito

La pericoloso sentiero preso dal mercato azionario cinese sembra essere più lungo di quanto ci si aspettasse. Si tratta di un vero e proprio incubo, che diventa settimana dopo settimana sempre più pericoloso. Il mercato sta crollando da giungo ad un ritmo impressionante, e le manovre di Pechino non sembrano aver effetto.
In termini di valutazione, una correzione di circa il 30% del mercato non è sufficiente a giustificare l’andamento da ottobre a giugno dei migliori titoli azionari che hanno raddoppiato il proprio valore. Soprattutto se si considera il contesto economico esterno ai mercati finanziari, anch’esso in un momento di flessione che preoccupa gli investitori stranieri.
E’ molto importante valutare anche le misure amministrative messe in atto da Pechino per dare benzina ai mercati nel breve termine, poiché tali manovre potranno modificare la traiettoria naturale dei prezzi azionari nel lungo periodo, fattore non digerito da chi cerca di coltivare un sano mercato azionario ‘ove investire.
Molte scommesse a ribasso sono state piazzate da molte banche d’affari, tra le maggiori per dimensione al mondo.
In una nota emessa mercoledì, Junheng Li ha prospettato che l’indice azionario Shagnhai Composite potrà tornare ai livelli pre-rally ad una soglia tra 2.000 e 2.500 nei prossimi 12 mesi. La notizia ha trovato conferma da AXA Investment Managers, i quali hanno indicato come il mercato azionario cinese potrà crollare di un ulteriore 20% rispetto ai livelli attuali. Questo significa un crollo di oltre il 50% in circa un anno.
Manovre come quella di sospendere gli scambi di ampi lotti di azioni avranno un effetto estremamente distorsivo dei prezzi, e l’impatto sulle decisioni delle istituzioni finanziarie potrebbe far perdere ulteriormente l’appetito verso un mercato così regolamentato.
In due parole, quello che bisogna evitare è di colpire in negativo il “market sentiment”. Da un lato ci sono riforme che possono attrarre investimenti esteri, dall’altro lato ci sono manovre che possono minare l’attrattività nel lungo termine, così come la liberalizzazione dei capitali e l’internazionalizzazione dello Yuan.
Il costo nel medio termine di avere un ciclo (forzato dalle autorità) così ravvicinato di rally e declino del mercato azionario viene stimato in una soglia tra 0,2% e 0,4% della crescita economica cinese nei prossimi sei mesi, secondo AXA. Tale effetto di enormi dimensioni è quello che tiene bloccate le amministrazioni cinesi nell’intervenire sui mercati, lasciando dunque che si possa manifestare un ulteriore declino.
Eric Chaney, economista di AXA, ha dichiarato come un’ulteriore correzione di circa il 20% è un’ipotesi molto ragionevole, seppur non rappresenta lo scenario peggiore. Basti pensare al passato, dove nella più grande dinamica di bolla-e-crisi dello Shanghai Composite portò il benchmark a +225% tra giugno 2006 e dicembre 2007, seguito da un crollo del 65% nell’anno successivo. In confronto, l’incremento costante degli ultimi 20 mesi, che si è concluso a giugno 2015, ha portato un modesto +105%.

sabato 18 luglio 2015

Google: sempre più BigG


In un momento finanziario quanto più tormentato da incertezze politiche ed economiche, vedi caso Grecia e il declino della Cina per citarne alcune, c’è che riesce a disintegrare record su record. Un nome dovremo tenere in mente nei prossimi anni, più di tanti altri, quello di Google.
BigG ha pubblicato le trimestrali sorprendendo in positivo gli analisti di tutte le più grandi banche d’affari. Il risultato? Il prezzo ha sfondato il muro dei 700$ per azione, c’è stata la migliore performance intraday, si è registrato il terzo balzo verso l’alto più alto in assoluto nella storia di Google e, se non bastasse, il gruppo ha visto lievitare la propria capitalizzazione di circa 67 miliardi di dollari in un solo giorno. Per intenderci, l’intera società Ford ha un valore complessivo di circa 58 miliardi di dollari. Google frantuma in questo modo i record detenuti da Apple e Cisco, che fecero un balzo di capitalizzazione di 46 e 66 miliardi di dollari rispettivamente.
Il party sembra poter durare ancora a lungo, come riporta la testata il Sole 24Ore: “lunedì Google ritornerà alle contrattazioni con un valore di mercato pari a circa 478 miliardi di dollari. Ma secondo JP Morgan, Bernstein Research, Nomura, Jefferies e Evercore - il cui target price è stato alzato a 800 dollari - quella cifra può arrivare fino a 547 miliardi facendo di Google la seconda azienda dopo Apple ad avere superato i 500 miliardi di capitalizzazione (il produttore dell'iPhone sta a 740 miliardi). E c'è chi crede, come Colin Gillis di BGC Partners, che l'azienda sia quella meglio posizionata per raggiungere una valutazione da 1.000 miliardi di dollari”.
Il tema del recente andamento di BigG non è solamente limitato ai numeri presentati nell’ultima trimestrale, ma riguarda anche il fatto che l’ultimo bilancio è stato il primo ad andare oltre le aspettative dopo 6 ben trimestri.
Un ruolo chiave che ha attratto la fiducia degli investitori verso Google è rappresentato dal nuovo direttore finanziario Ruth Porat, profilo cresciuto e consolidato a Wall Street. “La top manager eserciterà un controllo dei costi tanto desiderato da un mercato timoroso di un aumento degli investimenti al di fuori del business della ricerca online (si pensi ai Google Glass e alle Google Car). Un timore di cui l'amministratore delegato e co-fondatore di Google, Larry Page, è consapevole visto che lo scorso marzo, quando annunciò la nomina di Porat, si rivolse proprio agli investitori dicendosi impaziente di imparare da Ruth mentre continuiamo a innovare [le nostre attività] core - dalla ricerca e pubblicità ad Android, Chrome e YouTube - e allo stesso tempo investiamo in modo disciplinato e calibrato nella nostra generazione futura di grandi scommesse”.

venerdì 17 luglio 2015

Lo storico accordo con l'Iran


Mentre il mondo è distratto dall’infinita saga greca, e dall’epico andamento della borsa cinese, qualcosa di veramente importante sta andando in onda.
Riassumiamo in tre parole: Iran e petrolio
I negoziati hanno portato ad un accordo con l’Iran che ridimensiona il programma di armamenti nucleari. Nonostante grandissimo scetticismo e perplessità sul possibile risultato delle trattative, l’accordo è stato raggiunto.
Non lasciate che il mercato finanziario cinese e il dramma del debito sovrano greco vi distraggano da questo tema di rilevanza mondiale, poiché ora che l’accordo è arrivato, le ripercussioni economiche e politiche saranno potenzialmente enormi.
L’accordo fa cessare 13 anni di sanzioni contro l’Iran causate dall’aspirazione verso l’armamento nucleare, e questo piazza la prima vera pietra miliare dei risultati ottenuti dalle politiche estere del governo Obama. L’Iran aveva opportunisticamente sfruttato il periodo post 9/11 per accelerare il proprio programma, dopo che il maggior nemico “regionale”, Saddam Hussein, è stato eliminato dall’invasione militare degli Stati Uniti.
La normalizzazione delle relazioni tra due delle più ampie potenze militari nel medio oriente e la nazione d’eccellenza dell’ovest è un evento che cambia le regole del gioco per il futuro. L’Iran è in profonda trasformazione interna, e la popolazione chiede sempre più di aver accesso agli stili di vita occidentali e, più di tutto, ad essere collegati con Internet. Questo sembra potersi realizzare quanto più velocemente dopo l’accordo raggiunto.
Cosa è ancor più affascinante è il ruolo avuto dalla Cina e dalla Russia.
La Cina ha l’obiettivo ampio di diminuire la presenza militare americana nel mondo e, più di tutto, una riduzione delle tensioni geopolitiche nel medio oriente che hanno l’effetto di tenere i prezzi del petrolio alti.
La Russia ha degli interessi più complessi, poiché storicamente trae beneficio dei prezzi del petrolio alti. Gettando l’enorme quantità di petrolio iraniano nel mercato, l’effetto sul mercato sarà significativamente in una sola direzione, e sommato alle speculazioni, il prezzo del greggio sembra destinato a toccare nuovi record minimi. Questo, sommato alle sanzioni europee verso Putin, è normale chiedersi quale sia il beneficio per la Russia..
Cosa ha portato alla fine dell’Unione Sovietica non è stato un fallimento militare, bensì lo strapotere economico americano. Per poter mantenere certi livelli di investimenti nel militare, è necessario avere un’economia in espansione ed efficiente, e in questo gli Stati Uniti non erano paragonabili al sistema sovietico.
Un’ampia cooperazione tra Russia e Stati Uniti, oggi, risulta essere benefica per entrambi, ed entrambi vogliono raggiungere l’obiettivo di ridurre lo stato Islamico, così come nella volontà dell’Iran. Putin gioca una carta scaltra, seppur i bassi prezzi del greggio sono dolorosi per l’economia russa, un’aggressiva presenza americana con forte espansione nel mondo e nel medio oriente potrebbe essere ancor più dolorosa nel lungo periodo.
Un allentamento dal parte della Russia delle tensioni geopolitiche, potrebbe facilitare la cessazione delle sanzioni che stanno dilaniando l’economia interna. E questo, nel lungo termine potrebbe essere un volano di ripresa e di crescita.

giovedì 16 luglio 2015

Draghi anticipa l'Eurogruppo: 900 milioni per Atene


«Ci sono le condizioni per alzare la liquidità alle banche greche», con questa frase alla fine del Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea, Mario Draghi sconvolge giornalisti e mercati.

A sorpresa e in anticipo rispetto allo sblocco da parte dell’Eurogruppo dei 7 miliardi di prestito ponte per Atene, la Bce ha deciso quindi di alzare il tetto di liquidità di emergenza per le banche elleniche, portando così l’esposizione complessiva della Bce verso la Grecia a 130 miliardi di euro. Gli istituti greci dovrebbero così poter riaprire gli sportelli, rimasti chiusi dal 28 giugno.

Dopo il voto notturno del Parlamento greco e l’accordo dei ministri di Eurolandia, «le cose sono cambiate» ha spiegato Draghi e hanno permesso lo sblocco immediato di 900 milioni di euro, avvicinandosi alle richieste della Banca centrale ellenica.

Era stato proprio il blocco dell’Ela a 89 miliardi a costringere le banche a chiudere gli sportelli e limitare i prelievi bancomat. Probabile che con la riapertura rimanga comunque in vigore il limite di 60 euro al giorno per le operazioni agli sportelli automatici, nell’attesa che il terzo salvataggio europeo sblocchi quanto necessario, 25 miliardi, per la ricapitalizzazione.

Draghi ha però anche ammesso che «L’Unione monetaria è imperfetta e fragile» e che «sono necessari progressi», intervenendo anche sulla questione del debito Greco e confermando la necessità di un taglio netto come già sottolineato dall’FME nel suo ultimo rapporto.

Spazio anche per qualche nuovo attrito con Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, dopo quello causato dalle dichiarazioni di Draghi della scorsa settimana proprio sul tema della riduzione del debito ellenico e archiviato da fonti Bce come «uno scambio di vedute». Alla domanda di un giornalista di commentare l’ipotesi lanciata dal ministro tedesco nel fine settimana, ovvero la possibilità che la Grecia lasci l’euro per  almeno 5 anni, Draghi ha risposto che non commenta affermazioni di uomini politici e che dal punto di vista della Bce la Grecia è e resta nell’euro, aggiungendo che «Tutte le indicazioni - ha aggiunto - mi portano a dire che la Bce e il Fondo monetario internazionale saranno rimborsati dalla Grecia il 20 luglio», un “assegno” di circa 3,5 miliardi oltre interessi.

Concludendo, Draghi ha poi commentato la situazione globale dell’area euro dove i segnali, ha detto, indicano un ampliamento della ripresa, nonostante i recenti sviluppi legati al grexit e confermando i tassi di interesse allo 0,05%.

mercoledì 15 luglio 2015

Microsoft non taglia Windows Mobile

Nel day after dell’annuncio da parte di Microsoft di un piano di tagli da 7.800 posti che configura un nuovo ed ulteriore ridimensionamento per il business relativo ai dispositivi mobili, Satya Nadella, AD del gigante di Redmond, dichiara in un’intervista a ZDNet che non si tratta di un’uscita dal mercato “mobile” e che, al contrario, l’arrivo di Windows 10 previsto per il 29 luglio prossimo sarà un’opportunità di crescita nel segmento.


Nadella racconta che si tratta di “aggiornare” la mission che trovò al suo arrivo in Microsoft, nel 1992, trasformando l’ormai raggiunto obiettivo di “portare un pc in ogni casa e su ogni scrivania” in “portare Windows su ogni dispositivo”, riconoscendo nella convinzione di immaginare un futuro con un “pc al centro di tutto” uno dei più grandi errori del passato e sottolineando come lo sfoltimento delle risorse non significhi in alcun modo una minore presenza di Microsoft sul fronte mobile, come dimostra il recente annuncio della nuova linea di fascia alta Lumia in arrivo il prossimo anno. “Produrremo meno modelli così da rimanere più concentrati” ha aggiunto.


Centrale per il funzionamento della strategia immaginata da Nadella sarà il rapporto con gli sviluppatori che con il nuovo Windows 10 dovrebbe fornire una piattaforma comune di sviluppo, trasversale dai computer ai visori Hololens, passando per telefoni e console Xbox. “Le App per Windows saranno universali” dice Nadella e gli sviluppatori potranno così lavorare puntando non al 3% del mercato mobile controllato da Microsoft ma al miliardo di consumatori che avrà un Menu Start di fronte.


Un cambiamento netto e radicale, sulla scia della strategia già adottata da Apple con le sue App “Universal” e da Google con le Chrome Apps. In un mondo digitale che avvolge e coinvolge l’utente a partire dallo smartphone, passando per i tablet e arrivando a computer, televisioni e console, fornire agli sviluppatori una piattaforma trasversale non può che generare altro che vantaggi, sia in termini di pubblico potenziale che di attrattività della piattaforma stessa. Senza dimenticare i vantaggi per gli utenti, che sperimenteranno così la comodità di utilizzare le loro App preferite indipendentemente dal device.


E’ una nuova nuova Microsoft, come ne abbiamo viste tante in questi ultimi anni. I tempi dell’egemonia sono ormai definitivamente archiviati.