mercoledì 28 ottobre 2015

Il Pil in Cina ha battuto le aspettative


L’’economia cinese si sta espandendo più velocemente rispetto alle previsioni degli economisti sul terzo trimestre, permettendo al premier Li Keqiang di mantenere a portata di mano il target del 2015.
Il Pil si è fermato sotto la soglia del 7%, precisamente a 6,9% nei tre mesi conclusi in settembre, secondo la comunicazione del National Bureau of Statistics, superando le aspettative degli economisti che prevedevano 6,8%. Il dato segna l’espansione più lenta dal 2009 e non scaccia i timori che possa trattarsi di una breve stabilizzazione prima di un più ampio decremento economico e dei mercati finanziari.
La forza nei servizi e nei consumi ha aiutato ad annegare i deboli dati sulla manifattura e sulle esportazioni, mettendo in luce una continua trasformazione della seconda più grande economia al mondo. Il ritmo di crescita del settore dei servizi ha accelerato a 8,4% nei primi 9 mesi dell’anno, mentre il settore secondario, che include appunto la manifattura, ha registrato un indebolimento fermando il tasso di espansione al 6%.
“E’ il momento di accettare che l’economia cinese non è guidata solamennte dai prodotti industriali e da investimenti su tipologie di asset fissi” ha dichiarato James Laurenceson, futuro direttore del Australia-China Relations Institute all’università di Sydney.
Il governo ha tagliato i tassi di interesse ben cinque volte da novembre 2014 e innalzato la spesa pubblica in infrastrutture al fine di mantenere la crescita in linea con il target del 7% stabilito per l’anno 2015.
I mercati non hanno risposto in modo spumeggiante, bensì lo Shanghai Composite Index ha chiuso praticamente invariato e il dollaro australiano si è rafforzato.
L’’output industriale nel mese di settembre è aumentato del 5,7% rispetto all’ultimo anno, comunque inferiore rispetto alle stime degli economisti che avevano in target il 6%. Le vendite retail sono aumentate del 10,9%, contro una stima del 10,8%.
La Cina ha effetti globali più che mai in questo periodo, con la Fed e la presidente Yellen che non hanno nascosto perplessità sulla situazione economica cinese che influisce sulle scelte future della banca centrale, nello specifico sul tema caldo di alzare o meno il tasso di interesse.
“L’impressione più ampia è che il rallentamento economico si sia fermato ma non ci sia ancora stata un’inversione di rotta”, ha dichiarato Shane Oliver, capo della strategia di investimento presso AMP Capital con base a Sydney.

lunedì 26 ottobre 2015

La crisi cinese frena i profitti del lusso



Il 2015 si sta rivelando un anno nero per il settore della moda e del lusso.
Contrariamente a quanto accaduto nel mondo occidentale durante la crisi economica che ha colpito la nostra economia, dove il settore sopra citato ha comunque mantenuto indici di crescita positivi nei fatturati dei vari brand, la crisi che ha colpito quest'anno il gigante asiatico sembra avere effetti differenti.
In teoria, come spiega uno studio della London School of Economics, al verificarsi di una crisi economica i settori come quelli del lusso dovrebbero essere impattati in positivo. Infatti in previsione di una svalutazione della moneta e di una possibile iperinflazione si cerca sempre “un riparo” nei in tutto ciò che abbia valore non volatile come i beni di lusso.
Tuttavia la svalutazione dello Yuan ed il rallentamento della crescita in Cina (ad oggi intorno al 6%) ha portato le grandi griffes a vedere una contrazione dei loro fatturati nel mercato cinese.
Una recente ricerca  di Bain&Company ha sentenziato che un ulteriore rallentamento dell'economia cinese potrebbe ridurre gli introiti del settore del 30%.
Il crollo della borsa asiatica ha colpito le società proprietarie di brand di lusso  facendo perdere i loro titoli per valori dal 5% al 15% circa (ad esempio LVMH ha perso il 5% mentre Burberry il 12%).
Inoltre, ad aggravare la situazione, ci ha pensato il governo cinese promuovendo una campagna anti corruzione ed introducendo nuove norme sul controllo della circolazione dei capitali.
In risposta alle nuove dinamiche del mercato i brand di lusso hanno cominciato a ridurre i canali retail nel paese guidato da Xi Jinping chiudendo una parte dei loro negozi e spostandoli in altri paesi, dove vi è un notevole afflusso di turisti cinesi.
Ad esempio LVMH, proprietario del marchio TAG Heuer, ha chiuso un negozio ad Hong Kong per poi aprirne di nuovi a Tokyo al fine di seguire i consumatori cinesi nei loro spostamenti.
Hermes, brand francese noto soprattutto per le sue borse, ha registrato un notevole incremento del suo fatturato in Giappone (circa del 30%).
Da non sottovalutare il potenziale dell'e-commerce, che al contrario del canale di vendita tradizionale, ha mantenuto valori positivi di crescita anche in Cina.

giovedì 22 ottobre 2015

Segnali positivi nell’Eurozona: il Quantitative Easing funziona


Il Quantitative Easing, ossia il programma di massiccio acquisto di titoli per un valore che supera i mille miliardi di euro da parte della Banca centrale europea, sta iniziando a dare i suoi frutti e a stimolare le economie dell’Eurozona. Almeno questo è quello che emerge dal sondaggio reso pubblico ieri dalla BCE che esamina l’andamento del credito alle imprese e alle famiglie nel terzo trimestre del 2015 tra più di 140 banche europee.
Secondo l’istituto centrale europeo, in questo periodo le banche in esame hanno usato “la liquidità addizionale derivante” dal QE “per erogare credito“.  In questo modo avrebbero allentato la stretta creditizia sul continente – in particolare al Sud – che ha caratterizzato questi anni di crisi economica.
Anche l’Associazione Bancaria Italiana conferma i dati della BCE evidenziando che nei primi otto mesi dell’anno in corso, i prestiti alle imprese hanno segnato un +15,9% rispetto allo stesso periodo del 2014.
Positivo anche il segnale sul lato delle famiglie: nei primi otto mesi del 2015, i nuovi mutui erogati sono stati pari a 28,920 miliardi di euro. Nello stesso periodo del 2014 erano stati di 15,543 miliardi di euro – per una crescita dell’86,1%. In questi numeri ci sono anche le surroghe – ovvero il trasferimento di un mutuo da una banca ad un’altra. La loro incidenza sul totale dei nuovi finanziamenti è stata pari a circa il 29%.                
I dati resi noti ieri influenzeranno le decisioni che il consiglio dei Governatori dovrà prendere giovedì: in linea di massima ci si aspetta che Draghi tenga aperta ancora la possibilità di effettuare modifiche in merito agli acquisti dei titoli previsti.
I benefici apportati all’Eurozona dal programma del Quantitative Easing hanno avuto e continuano ad avere per il Vecchio Continente un’importanza indubbia: la politica monetaria della BCE ha immesso liquidità nel sistema economico europeo, rendendo più facile l’accesso al credito per privati ed imprese. L’effetto di svalutazione sull’euro ha consentito di dare respiro alle esportazioni dei Paesi europei con le economie più deboli, fornendo così un input fondamentale per la ripresa post-crisi.
Dal lato tedesco non mancano comunque lamentele: la Bundesbank critica il fatto che il Quantitative Easing non giovi alle banche tedesche, che si trovano di fronte a una forte contrazione dei ricavi. Secondo il rapporto trimestrale appena pubblicato «La liquidità aggiuntiva, usata tra le altre cose per la concessione di prestiti è dovuta quasi esclusivamente a un aumento dei depositi bancari e, quasi per nulla, dalla vendita di attivi con valutazioni di mercato da parte delle banche stesse».

lunedì 19 ottobre 2015

Fed e tassi di interesse: cosa ci aspetta nei prossimi mesi?


I membri del Federal Reserve Board of Governors solitamente non condividono le differenze di opinioni all’esterno dell’istituzione. Nel giorno 11 ottobre il vice presidente Stanley Fischer ha dichiarato in un’intervista a Lima che si aspetta una risalita repentina dei tassi della Fed nel finale del 2015, confermando dunque quanto dichiarato da Janet Yellen in settembre. Solo a due giorni di distanza, Lael Brainard e Daniel Tarullo, entrambi membri del board, hanno indicato come la Fed dovrebbe pazientare ad intervenire sui tassi poiché non sono ancora presenti chiari segnali di inflazione. Tale “conflitto” sulle prospettive mostra precisamente il dilemma che sta affrontando la Yellen: alzare i tassi nel breve termine con il rischio di soffocare una timida ripresa, oppure attendere fino al prossimo anno rischiando di veicolare un’inflazione “comandata”.
Il congresso ha dato alla Fed due precisi compiti: mantenere il tasso di inflazione prevedibile e il tasso di disoccupazione basso. Nel passato, come la disoccupazione aveva una direzione a ribasso, l’inflazione prendeva il percorso inverso puntando ad innalzarsi. Dalle stime della Fed, con un tasso di disoccupazione del 5,2% l’inflazione sembrerebbe essere sul suo percorso naturale. Doves puntualizza però come tale relazione non è sempre verificata. Esiste infatti un terzo argomento: la Fed non conosce approfonditamente come e quanto abbia funzionato l’ultimo programma espansivo degli ultimi 7 anni. E se questo è il presupposto, immaginiamo quanto complesso possa essere avere delle previsioni attendibili per i prossimi anni.
La Fed non può dire alle banche quanto e come prestare risorse. Invece, tale processo è misura di uno strumento che è controllabile: il tasso di interesse. Dal 2008, la Fed ha mantenuto i tassi di interesse a breve termine prossimi a zero e abbattuto quelli a lungo termine per effetto del “quantitative easing”. Questo ha richiesto che la banca centrale comprasse ingenti quantità di debito governativo americano a lungo termine. Con un tasso di interesse nel lungo periodo minore, si incoraggia l’acquisto di abitazioni e i diversi business ad indebitarsi per puntare ad una futura espansione.
Il fatto, registrato in questi anni, è che seppur il tasso di interesse sia basso, i prestiti non sono aumentati come ci si aspettava. Un problema di manovra o un problema di misurabilità degli effetti? Alcuni economisti non nascondono il proprio scetticismo “non siamo convinti che il QE possa sistemare tutto”, riporta MIchala Marcussen, direttore globale del dipartimento economico di Societé Generale.
“Noi abbiamo stime veramente ottime di come il quantitaative easing abbia avuto effetti sui tassi di interesse”, ha dichiarato Amir Sufi, un professore della University of Chicago Booth School of Business. “Noi non siamo in grado di tradurre tutto questo negli effetti sull’’economia reale”. Nel suo ultimo intervento a Basilea, Sufi ha segnalato alle banche centrali come sia urgente cambiare i modelli di analisi per poter interpretare le manovre di politica monetaria.
Nel 2012, Ben Bernake, il predecessore della Yellen, dichiarò agli economisti che le manovre della Fed hanno abbassato i tassi di interesse a lungo termine e migliorato le condizioni finanziarie. “Ottenere delle stime precise degli effetti di queste operazioni risulta molto complesso”. Nella situazione attuale dove la Yellen sta valutando la prossima mossa, le parole di Bernake risuonano quanto più attuali e vere anche per lei.

domenica 18 ottobre 2015

Proseguono i negoziati per il TTIP con le proteste sullo sfondo


Continua a crescere in Europa la protesta contro il Transatlantic Trade and Investment Partnership per cui sono in corso round di trattative tra Unione Europea e Stati Uniti.
Per quanto in Italia si parli pochissimo di questo trattato e sul malcontento della popolazione europea sulle norme che lo disciplinano il 10 Ottobre si è svolta una imponente manifestazione di opposizione al TTIP ed al CETA (accordo commerciale stipulato tra Unione Europea e Canada) a Berlino.
L'evento è stato decisamente imponente, gli organizzatori parlano di 250mila presenze. Si pensi che l'ultima manifestazione con un numero maggiore di partecipanti si svolse il 15 Febbraio 2003, in opposizione alla partecipazione alla guerra in Iraq.
La larga partecipazione ha coinvolto non solo i sindacati (tedeschi), ma anche associazioni ambientaliste, gruppi che si occupano di sviluppo, associazioni di consumatori e produttori di alimentari.
Il timore dei contestatori del Transatlantic Trade and Investment Partnership e dell'Accordo Commerciale ed Economico Globale è quello che questi due trattati portino ad un incremento del potere delle aziende multinazionali a discapito della democrazia.
La Commissione Europea non sembra essere del tutto indifferente a questa movimentazione, infatti nel round partito il 19 Ottobre sono stati messi sul tavolo delle trattative degli eventuali vincoli più stringenti al fine di applicare norme di tutela dell'ambiente e di protezione sociale in linea con gli standard definiti a livello internazionale. Ad esempio le linee guida per la protezione dei lavoratori definite dall'Organizzazione Mondiale del Lavoro (il Congresso statunitense ne ha ratificate solamente due su su otto).
A questo si aggiunge anche la nuova proposta, già trattata in questo blog in un articolo precedente, riguardante l'organizzazione e la selezione dei componenti degli arbitrati che si occuperanno di eventuali dispute tra aziende private e stati.
Benchè questo accordo sia stato in effetti poco pubblicizzato (in Italia soprattutto) nonostante il vasto impatto che questo potrebbe avere nell'economia del vecchio continente, i cittadini europei hanno deciso di far sentire la loro voce.
Strategia che, considerando le azioni recenti di Bruxelles, hanno per ora sicuramente portato dei frutti.

mercoledì 14 ottobre 2015

La quotazione in Borsa di Poste Italiane


Tra le notizie che stanno ricevendo più attenzione mediatica in questi giorni spicca quella relativa alla quotazione in Borsa di Poste Italiane che rappresenta una delle più grandi pivatizzazioni italiane degli ultimi anni.
L’OPA (offerta pubblica di acquisto) di Poste Italiane, iniziata il 12 ottobre, porterà sul mercato circa il 38% circa del capitale attualmente detenuto dal Ministero dell’Economia e consentirà le negoziazioni del nuovo titolo Poste Italiane a partire da martedì 27 ottobre.
Una parte consistente del gruppo Poste, valutato tra i 7,8 e i 9,8 miliardi di euro, passerà così dal controllo dello Stato italiano agli investitori di Piazza Affari. Secondo quanto diffuso dal Ministero del Tesoro, l’operazione costituisce un cardine fondamentale del programma di privatizzazioni del Governo volto da una parte a rafforzare la società e rendere più efficienti i servizi resi ai cittadini, dall’altra a cercare di reperire risorse per ridurre il debito pubblico, anche se in realtà i 4 miliardi scarsi che verranno raccolti tramite questa IPO sono veramente un’inezia se confrontati agli oltre 2000 miliardi di debito pubblico italiano.
Ma vediamo insieme i dettagli dell’offerta.
Verranno collocate un massimo di 453 milioni di azioni ordinarie suddivise tra investitori istituzionali in Italia e all’estero (circa il 70%), e la clientela pubblica e i dipendenti del gruppo (circa il 30% del totale).
La valorizzazione del capitale sociale cadrà in un range tra i 7,84 e i 9,8 miliardi di euro con un prezzo che potrà variare tra un minimo di 6 euro ad azione e un massimo di 7,5 euro.
Agli assegnatari delle azioni che manterranno l’impiego per un anno spetterà una bonus share, ossia l’assegnazione di un’azione gratuita ogni 20 azioni assegnate nell’ambito dell’offerta di questi giorni. Anche la politica dei dividendi sarà particolarmente favorevole, con la distribuzione dell’80% degli utili netti consolidati al periodo di pertinenza sia per il 2015 che per il 2016.
Poste Italiane, campione nazionale con più di 150 anni di storia alle spalle, con una delle più forti reti di distribuzione a livello nazionale e con un business molto diversificato che ormai si è spinto ben oltre rispetto ai tradizionali servizi postali, sembra a prima vista un buon affare, ma restano comunque alcuni aspetti critici che potrebbero minarne il successo a Piazza Affari. In primis i rischi connessi alla revisione dell’impianto regolamentare del Servizio di Posta Universale che potrebbe avere ripercussioni negative sui risultati operativi e commerciali di Poste Italiane.

domenica 11 ottobre 2015

Volkswagen e la lunga strada da percorrere sul Caso Diesel


Il gruppo Volkswagen AG dovrà sostenere ingenti sforzi economici per gestire il recente scandalo sulle emissioni dei motori diesel, segnalando che il percorso intrapreso non vedrà la fine almeno entro il 2016.
VW ha presentato una proposta alle autorità tedesche riguardante la gestione legale dello scandalo in questo primo step, sottolineando come il coinvolgimento di tecnologie e le differenze dei regolamenti nei diversi paesi potranno complicare notevolmente il processo di risoluzione dello scandalo, e l’adeguamento delle emissioni dei veicoli coinvolti. Questa fase di forte incertezza lascia nell’oscurità circa 11 milioni di proprietari VW nel mondo, circa le riparazioni necessarie dei veicoli e come queste impatteranno sulle performance e sul valore futuro delle automobili.
A seguito dell’istallazione del software incriminato che gestiva i livelli di emissione dei motori utilizzato in America dal 2009, VW affronta dei costi e una riduzione delle vendite per una ammontare stimato totale di oltre €35 miliardi, secondo le stime di Warburg Research. Dopo aver quantificato questi rischi, VW ha interrotto e cancellato i progetti non essenziali, poiché gli accantonamenti fatti fino ad ora, circa €6.5 miliardi, non saranno sufficienti per gestire tale scandalo.
VW group ha segnalato ripetutamente che daranno maggiore importanza a risolvere in modo adeguato e definitivo il problema rispetto alla velocità che lo scandalo rientri. Inoltre, i vertici di VW hanno specificato come la questione emissioni coinvolga quattro case automobilistiche e molteplici modelli in tutto il mondo, incluse circa 8 milioni di vetture all’interno dell’Unione Europea e 482.000 negli Stati Uniti.
“Dovremo affrontare non tre soluzioni, ma migliaia” ha dichiarato il CEO Matthias Mueller in un’intervista, facendo riferimento alla complessità di gestire le differenze sia del mix tecnologico delle vetture sia delle rispettive leggi e regolamenti nei paesi.
Volkswagen ha comunicato alle autorità tedesche il proprio piano di gestione, indicando come i richiami delle automobili inizieranno a gennaio 2016 e proseguiranno fino alla fine dell’anno. Parte delle vetture probabilmente avrà bisogno solo una nuova programmazione del software che potrà essere eseguito dai service dei concessionari, mentre alcuni veicoli necessiteranno di nuovi sistemi di iniezione o una più ampi convertitori catalitici e, infine, la sostituzione completa della vettura verrà valutata solo in alcuni casi specifici.
Intanto, sul mercato di capitali il titolo sta oscillando intorno ai 115€, valore che recupera parte del terreno perso (infatti le azioni sono arrivate ad un prezzo di circa 100€) ma pur sempre ampiamente sotto i livelli pre-scandalo.

sabato 10 ottobre 2015

Twitter ci riprova con "Moments"


Se potessero, quelli di Twitter vi direbbero che il 2015 è stato un “annus horribilis” e se non dovessero ammetterlo, è solo perché stanno provando in extremis a raddrizzarlo.

L’immagine che emerge da una breve cronistoria dell’ultimo anno della casa californiana è tutto meno che rassicurante: dopo aver preteso la testa dell’ex CEO Dick Costolo, dimessosi sotto le pressioni degli azionisti il primo luglio di quest’anno, il board ha richiamato “ad interim” il founder Jack Dorsey, con l’intenzione di guadagnare tempo nella ricerca di un degno successore per guidare il social network dei cinguettii fuori dallo stallo dei 300 e poco più milioni di utenti attivi su base mensile. Il tutto mentre il titolo affondava in borsa, perdendo fino al 50% se si considerano le ultime 52 settimane.

Se questo non bastasse a definire lo smarrimento di Twitter, il quadro si completerebbe guardando al gap sempre più ampio nei confronti del primo competitor, Facebook, e al sorpasso sugli utenti attivi realizzato da Facebook stesso a mezzo della sua controllata Instagram, sempre ai danni del canarino azzurro, ridefinendo le gerarchie dei social network e raddoppiando la propria posizione ai primi posti delle principali telemetrie digitali.

Oggi Twitter gioca una delle sue ultime carte e sembra farlo rilanciando con un “all-in” in pieno stile Texas Hold-Em. Non solo infatti lancia “Moments”, una trasformazione radicale che dovrebbe ridefenire (o definire?) la posizione del social network nello spazio competitivo digitale ma lo fa tentando di costruirgli attorno tutta la solidità e la credibilità necessaria per essere davvero una mossa di rilievo: nominando Jack Dorsey CEO a tutti gli effetti, definendolo “il migliore è unico CEO possibile” per Twitter.

Ma che cos’è “Moments”?

Non dovevamo certo attendere Twitter per capire che una delle prossime terre di conquista per i giganti del web è nel mondo dell’informazione online, ovvero rendere i social l’unico punto di consumo di informazioni sia “private” (dalla rete di amicizie) che generaliste (dalla rete di contenuti di giornali, blog e media in genere).

La prima mossa l’ha fatta anche questa volta Facebook con i suoi “Instant Articles” e “Signal” (questo disponibile solo in US) e i “Moments” di Twitter dovrebbero ricalcarne l’idea generale, ovvero offrire all’interno del feed dell’utente una selezione di notizie legate a svariati argomenti, dall’informazione fino allo sport e all’intrattenimento. Una sorta di rassegna stampa veloce sponsorizzata da alcuni media partner di rilievo come, per citarne alcuni, il Washington Post, il NY Times, Mashable e Vogue. Oggi disponibile solo negli Stati Uniti dovrebbe essere rilasciato a breve anche nel resto del mondo.

Sarà questa la direzione giusta per il canarino smarrito?

venerdì 9 ottobre 2015

In attesa del TTIP ecco il TPP


Mentre il TTIP, nel mezzo delle negoziazioni tra USA e Unione Europea, procede a velocità decisamente ridotta ecco che 12 paesi che si affacciano sull'Oceano Pacifico trovano l'accordo per un trattato di libero scambio tra i più grandi al mondo.

Al termine di nove giorni di trattative ecco che il cinque Ottobre 2015 Stati Uniti, Canada, Perù, Australia, Cile, Brunei, Giappone, Malesia, Messico, Singapore,Nuova Zelanda e Vietnam hanno creato il Partenariato Trans-Pacifico, anche se  non ancora firmato e ratificato. Questo, per gli Stati Uniti, rappresenta il più importante accordo commerciale dai tempi del NAFTA.

In sostanza il TPP è un accordo di libero scambio che prevede l'eliminazione e la riduzione di tasse legate alla commercializzazione di prodotti facenti parte delle più varie categorie. Infatti questo agreement coinvolge, ad esempio, il settore automobilistico, cinematografico, alimentare e anche farmaceutico. In particolare questo ultimo è stato oggetto di intense trattative, soprattutto riguardo le tempistiche legate al loro brevetto. Inizialmente i negoziati, partiti nel 2005 avevano come obiettivo di chiusura nel 2012, tempistica che proprio grazie ai disaccordi sulla gestione della proprietà intellettuale non sono stati rispettati.

I paesi coinvolti, come nella maggior parte dei casi di accordi di questo tipo, sostengono che grazie all'intesa raggiunta aumenterà sia il lavoro che la ricchezza di tutta la loro area, che già rappresenta circa il 40% della produzione economica mondiale.

L'accordo raggiunto tra questi 12 paesi (che dopo aver firmato devono fare ratificare il trattato dai rispettivi parlamenti) ha una importante valenza non solo economica, ma anche politica.

Infatti uno degli effetti immediati è quello di minare l'influenza della Cina nella zona del Pacifico, si pensi che già Corea del Sud, Filippine e Taiwan hanno già manifestato interesse in tempi non sospetti (si parla del 2013).

Allo stesso modo questo accordo è un chiaro messaggio anche per gli altri paesi BRICS, che negli ultimi tempi stanno vivendo un periodo di stallo sia nelle riforme che nella crescita economica.

mercoledì 7 ottobre 2015

Data privacy: Ue blocca l’accordo con gli Usa sullo scambio di dati


Si ritorna a parlare di privacy su internet e di sicurezza sul trattamento dei dati con la Corte UE che proprio in questi giorni si è pronunciata su Safe Harbour, l'intesa tra USA e Europa che da 15 anni regolamenta il trasferimento dei dati tra i due continenti, definendola illegale.
La direttiva europea sulla protezione dei dati proibisce infatti che si spostino dati personali di europei fuori dall’Europa qualora vengano a mancare adeguate protezioni della privacy. Tuttavia dal 1998 gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno siglato un accordo (il cosiddetto Safe Harbour) che consente alle aziende americane che lo sottoscrivono – ben più 4mila - di trasferire dati dall’Europa all’America fin tanto che rispettino una serie di principi. Per anni dunque si è dato per scontato che questa autocertificazione delle aziende americane bastasse a garantire il diritto alla privacy dei cittadini europei.
Ma oggi cambia la musica. In virtú della sentenza emessa dalla Corte UE, i cittadini europei potranno chiedere di vietare a Facebook, Google e ad altri colossi del web di conservare negli Stati Uniti i dati dei propri iscritti. Questa presa di posizione rovescia una decisione del 2000 della Commissione europea che riteneva adeguato il livello di protezione dei dati offerto dagli americani e consentiva il trasferimento oltreoceano di informazioni relative ai cittadini europei.

Iniziano a tremare quindi i grossi player del web che finora hanno sfruttato la disciplina per trasferire dati a carattere personale di origine europea negli Stati Uniti al posto di conformarsi alle più vigorose normative comunitarie in materia di privacy.

Il processo che ha portato a questa decisione è iniziato nel 2011 quando Max Schrems, uno studente austriaco di giurisprudenza, dopo lo scandalo del programma di sorveglianza americano svelato da Edward Snowden, ha avviato una battaglia contro Facebook Irlanda sostenendo che come utente Facebook i suoi diritti erano stati violati dai programmi americani. Vistosi ignorato dall’authority irlandese per la protezione dei dati, Schrems ha portato il caso davanti a una corte irlandese fin poi ad approdare alla Corte europea di giustizia che ha infine accolto la sua richiesta.

Ma cosa succederà adesso in concreto?
Le autorità nazionali avranno più potere per garantire un’adeguata protezione della privacy. Da domani chiunque potrà presentare delle segnalazioni come quelle di Schrems e verificare con le autorità la sicurezza del trasferimento dei propri dati all’estero. Se la gestione verrà giudicata non adeguata il trasferimento dati potrà essere bloccato. Questo potrebbe portare a una crescente localizzazione dei dati di cittadini europei all’interno dell’Unione europea e un cambiamento dei modelli aziendali di gestione dei dati.
Come evidenzia il quotidiano La Stampa, tuttavia potrebbero verificarsi anche alcuni escamotage: ad esempio le aziende potrebbero modificare i contratti con gli utenti europei, chiedendo il loro consenso per trattare i dati all’estero. 
Staremo a vedere come reagiranno i grandi colossi del web e quali strategie utilizzeranno per continuare ad utilizzare i nostri dati, nonostante i vincoli legislativi.             

domenica 4 ottobre 2015

TTIP si cerca un accordo sulla regolamentazione delle dispute stati imprese


In accordo con gli impegni assunti nell'ultimo round delle negoziazioni del tanto discusso TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) con gli Stati Uniti, la Commissione Europea ha preparato una proposta per la regolamentazione di un sistema di giustizia dedicato alle dispute tra Stati ed investitori.
Questo tema è attualmente uno dei più spinosi e più soggetti a discussioni tra la federazione guidata da Obama e l'Unione Europea.
La commissaria al commercio Cecilia Malstroem ha recentemente assicurato la struttura di questa nuova Corte per le dispute commerciali tra investitori e Stati non limiterà in alcun modo il diritto di ogni stato di regolare le opere pubbliche.
La Malstroem sostiene inoltre che gli accordi commerciali tra l'Unione e gli Stati Uniti non potranno impedire alla prima di mantenere le regole sugli aiuti di stato, così che gli Stati non diventino soggetti a forme di ricatto da parte delle multinazionali.
Per meglio comprendere la delicatezza della questione ed i possibili impatti nella situazione non vi sia una adeguata protezione per gli stati sovrani si può prendere come esempio il caso della Vattenfall.
Nel 2011, a seguito della tragedia nucleare di Fukushima in Giappone, la Germania ha deciso di abbandonare il nucleare facendo chiudere le due centrali di Brunsbüttel e Krümmel gestite dall'azienda svedese. A seguito del provvedimento tedesco la Vattenfall si è rivolta all'arbitrato internazionale della Banca Mondiale avanzando la richiesta di risarcimento dal valore di 4,7 miliardi di euro.
La nuova proposta, qualora approvata da Parlamento Europeo, dai governi dei paesi UE ed in seguito dagli USA, andrebbe a sostituire la prima proposta che prevede la creazione di commissioni Ad Hoc con arbitri privati (Investor-state dispute settlement).
La commissione prevede quindi la creazione di una Corte di Giustizia composta da un tribunale di prima istanza con quindici giudici nominati pubblicamente ed un tribunale di appello composto da sei giudici.
I quindici membri giudicanti verrebbero nominati congiuntamente da Unione Europea e Stati Uniti e dovrebbero essere così suddivisi: cinque giudici europei, cinque americani e cinque da paesi terzi.
Allo stesso modo sarebbero suddivisi anche i sei giudici di appello: due europei, due statunitensi e due da paesi terzi.
Nonostante di primo impatto la scelta di suddividere in questo modo la nazionalità (e quindi un ipotetico favoritismo territoriale) possa essere considerato equo, bisogna vedere che ruolo potrebbero avere le influenze politiche dei paesi coinvolti in eventuali dispute.